Il Messico e la violenza. Durante la campagna elettorale delle ultime settimane il fenomeno ha riconquistato anche qualche spazio sui media internazionali. Ma l’escalation è sempre meno legata alla cadenza degli appuntamenti politici. “La violenza che si è vista nelle ultime elezioni – spiega Josè Gil Olmos Rodriguez, giornalista del giornale online Proceso – è parte di quella che si vive in Messico da diversi anni e, soprattutto, nel corso del governo di Andrés Manuel López Obrador. In questi sei anni la segreteria esecutiva del Sistema nazionale di pubblica sicurezza ha registrato più di 134.594 omicidi, mentre durante il governo di Enrique Peña Nieto (che ha governato dal 2012 al 2018, ndr) 89.860”. Gilberto Lopez y Rivas, antropologo e docente universitario, aggiunge: “La violenza è strutturale. Non si ferma a causa di contingenze politiche. Fa parte del tipo di accumulazione capitalistica in cui viviamo. Tutto cambia, affinché tutto rimanga uguale”.
La campagna elettorale ha evidenziato una situazione limite, ma costante, che si replica secondo uno schema consolidato come racconta nel suo libro I cartelli non esistono il giornalista e docente Oswaldo Zavala: dopo la militarizzazione di un territorio esplode lo scontro con i gruppi criminali. La militarizzazione si somma ad altre due costanti: ricchezza di materie prime e resistenze territoriali e indigene. Schema che si ripete anche oggi nonostante sia stata abbandonata la cosiddetta “guerra alla droga”. Il Chiapas, torna ad essere “laboratorio” della violenza: il governo di Lopez Obrador (che per brevità tutti chiamano AMLO) ha schierato non meno di 10mila agenti della Guardia Nazionale, corpo voluto nel 2019 dallo stesso presidente, per “gestire” la questione migratoria e così nello stato del Sud-Est messicano i fenomeni descritti da Zavala si incontrano con le organizzazioni paramilitari che dalla fine degli anni Novanta hanno segnato la violenza politica di quel territorio che confina con il Guatemala. Sono proprio alla frontiera, assieme alle zone dove la violenza paramilitare si è dispiegata contro l’esperienza zapatista, i luoghi dove la violenza fa oggi da padrona. L’ultima strage si è vista a Pantelhò, a un paio d’ore da San Cristobal de Las Casas, il 14 giugno, dove una famiglia è stata freddata a colpi di pistola non si sa da chi e perché.
In Messico c’è in corso una vera e propria guerra per il controllo del territorio. E come ogni guerra la popolazione civile è la vittima dello scontro di interessi che vede come attori Stato, grandi imprese e gruppi del crimine organizzato. La narrativa di un Paese nelle mani dei narcos è semplicistica e “casi” come la sparizione dei 43 di Ayotzinapa o quello del generale Cienfuegos ne sono esempi.
La campagna elettorale è stato occasione di propagande incrociate. Se da una parte “non si può dimenticare che la violenza registrata durante l’ultima campagna elettorale, e gli omicidi legati ad essa, si è scontrata con dati differenti tra governo messicano e quelli prodotti da soggetti indipendenti” ricorda ancora Olmos Rodriguez. Carlos Fazio, docente ed editorialista de La Jornada, sottolinea che la stampa vicina alle opposizioni “ha riprodotto la narrazione secondo cui lo slogan di AMLO “abbracci, non pallottole” avrebbe coperto l’alleanza del presidente con i gruppi dell’economia criminale. Questo ha dato il via ad una campagna di propaganda, sostenuta da Xóchitl Gálvez con il supporto del New York Times, Tim Golden di ProPublica, e l’agenzia tedesca Deutsche Welle, in cui lavora Anabel Hernández, che ha usato sui social il famoso hashtag #NarcopresidenteAMLO, associato poi a Claudia Sheinbaum (la nuova presidente, ndr). Con questo non dico, ovviamente, che non vi sia violenza in Messico, a partire dal dramma dei desaparecidos (circa 100mila secondo il governo) e dagli assedi di tipo militare e paramilitare in Chiapas nelle zone di influenza zapatista e contro gli oppositori ai mega-progetti estrattivi di López Obrador”.
Il tentativo di “pacificare” il Paese messo in campo da Lopez Obrador attraverso la logica del “non scontro” e con formule di redistribuzione di ricchezza, investimenti pubblici e rafforzamento del potere della Marina e degli altri corpi militari, è naufragato. Violenza sistemica e militarizzazione ricadranno sul governo dalla presidente Sheinbaum che dovrà capire se andare in continuità con il suo predecessore o cambiare rotta. Bisogna però riconoscere, come Oswlado Zavala ha fatto in una recente lezione all’Unam, che “il discorso del ‘narco’ promuove e propone l’idea che si possa uccidere, senza distinzioni, chiunque consideriamo nostro nemico. Le nozioni di guerra e narco sono a un punto di esaurimento e così l’industria dell’intrattenimento della violenza simbolica funziona come un potere fattuale che racconta la guerra contro il narco, giustificandola e trasformandola in un romanzo”, ovvero la violenza è sistemica, non è solo generata da gruppi criminali ed è diventata “comune”, ma sistemica è anche una narrazione polarizzata che tende a deviare lo sguardo così da mettere a fuoco il dito al posto della luna senza indagare le origini e le motivazioni di questo tsunami sociale e culturale che infesta il paese.