Un memoir carcerario, una riflessione politica su cosa significhi definirsi palestinese, un racconto d’amore. E’ tutto questo e molto altro Il racconto di un muro di Nasser Abu Srour. Pieno di riferimenti alla filosofia occidentale – Kierkegaard, Freud, Derrida solo per citarne alcuni – e al cristianesimo, è un testo denso, stratificato, estremamente coerente nella sua struttura complessiva, nonostante sia impossibile sapere come abbia fatto l’autore a scrivere e far arrivare fuori dal carcere il manoscritto, pubblicato per la prima volta nel 2022 da Dar Al Adab, un’editrice di Beirut, dopo due anni di vicende rocambolesche.

Nato nel 1969 in un campo profughi vicino a Betlemme, lo scrittore infatti è stato accusato di aver partecipato all’uccisione di un ufficiale dell’intelligence israeliana e condannato all’ergastolo. “Quest’uomo che aveva preso di mira un cugino di Abu Srour per farlo diventare un informatore, viene trovato morto, ma non si sa altro della sua storia”, mi spiega l’arabista Elisabetta Bartuli, che ha tradotto l’edizione italiana per Feltrinelli. Quello che, invece, è evidente è che il libro mostra da parte dell’autore “un bagaglio culturale di grande spessore – continua Bartuli – Ci regala una voce che rompe lo stereotipo secondo cui, per alcuni, la Palestina non sarebbe in grado di produrre intellettuali di un certo spessore“.

Perché “racconto di un muro”? Perché, scrive Abu Srour all’inizio rivolgendosi ai lettori, “questa non è la mia storia, è il racconto di un muro che mi ha scelto come testimone“. E’ sempre stato il muro, infatti, “a consegnarmi ognuno degli aggettivi con cui mi definisco”. Nel campo profughi, in prigione, nel cuore di una donna – Nanna, un’avvocata per i diritti umani di cui si innamora durante la detenzione, protagonista della seconda parte del libro – e infine di nuovo in prigione. Perché il muro è punto di partenza e di arrivo. E’ l’unica certezza, l’elemento in cui si congiunge il cerchio. Lo scrittore racconta della sua adolescenza, quando già sente come sia asfittica una linea temporale che faccia cominciare tutto dall’espulsione della Nakba, “senza niente prima e niente dopo” e percepisce di appartenere a una generazione che ha dovuto comporre da sé il proprio mito: dopo 20 anni si è scrollata di dosso “il pesante e opprimente lascito di disfatte non sue, ma nel 1987 ha annunciato la sua rivoluzione scrivendone le prime pagine con le pietre“.

La prima Intifada per Abu Srour è il momento in cui i giovani profughi come lui, spogliati della loro marginalità, diventano primi attori, persino dèi che, “voltate le spalle ai discorsi nati e proliferati in una geografia senza patria e alla chimera di una grande nazione musulmana in cui la religione era morta nel preciso istante in cui tutti loro erano stati uccisi o cacciati”, parlano tutte le lingue del dolore. “Avevamo bisogno di una generazione che si sollevasse, la Generazione delle pietre“, scrive prima di spiegare come quel momento storico fosse fondamentale anche perché faceva a pezzi “l’immagine stereotipata che ci vede come un Oriente barbaro, bisognoso di una guida che metta un freno alla sua brutalità e alla sua atavica arretratezza”. E ancora: “Noi si proclamava la nostra estraneità ai lunghi e monotoni panegirici in lode a re e sultani che ormai, a furia di opprimerci, ci avevano esasperato”. Il riferimento a re e sultani non è casuale perché Il racconto di un muro è anche un dito puntato. Non solo contro gli occupanti, come è ovvio, ma anche contro la ‘umma’, la comunità dei musulmani che “ha espulso i profughi palestinesi, corpi estranei che turbavano i loro confini coloniali”.

Nel gennaio 1993 il 24enne Abu Srour è a casa di un amico, fuori dal campo profughi. Si addormenta mentre fantastica su Natalie, un’assistente universitaria con cui ha preso un gelato due mesi prima. Lo sveglia “la gelida canna di un fucile”, che lo colpisce in fronte, una raffica di domande dal “signore e padrone dell’acciaio”, “una muta di bestie in agguato che solo il guinzaglio tratteneva dall’azzannare qualunque cosa puzzasse anche solo da lontano di ostilità”. Lo caricano su una camionetta che puzza di ferro e polvere da sparo, lo martellano con un’altra selva di domande sul giorno precedente. Nasser risponde, riportato alla realtà dalla violenza che gli scaricano addosso. Poi mani che afferrano le catene ai polsi e alle caviglie per buttarlo dentro la celletta numero 24 all’interno del centro interrogatori della prigione di al Khalil/Hebron (l’autore userà sempre il nome arabo per riferirsi alle città della Cisgiordania), dove “tu sei l’odore del tuo sudore, il sapore della tua disfatta e la preda dei tuoi pensieri. Nel centro interrogatori tu sei tutto e niente è te“.

Che cosa esattamente confessi Nasser non viene detto esplicitamente, forse perché non è chiaro nemmeno a lui: “Il tuo interrogatorio è finito quando ti sei messo a scrivere cose che, adesso, non ti importa più se sono vere o false, la tua preoccupazione maggiore, adesso, è come interpretare e definire questo nuovo te stesso“. E’ qui che riprende, dopo l’esperienza delle mura del campo profughi, il rapporto con il muro. Solo rinunciando a ciò che stava dietro e incollandosi a esso, Abu Srour avrebbe mantenuto l’equilibrio e la sanità mentale.

Dopo la confessione, arriva l’isolamento nella prigione di Ramla, cittadina occupata al centro della Palestina. Dentro la ‘busta’, il furgone per il trasporto, Abu Srour è in dialogo solo con se stesso: “Nessuno mi avrebbe imposto i suoi credo, quella era la mia nascita (…) Non avrei odiato il mio carceriere perché l’odio è soltanto uno spreco di energia, un altro catenaccio ancora e per me non ci sarebbero state porte, eccetto quella che avrei chiuso su me stesso”. Ancora non lo sa, ma scoprirà a breve che l’isolamento prevede di sopravvivere in un buco di cemento a tre metri sotto il livello del suolo. Tuttavia l’autore non si dispera, anzi: “Avevo bisogno di quella breve pausa da vivere con la triade che mi avrebbe fatto compagnia lungo tutto il mio periplo: io, il mio dio e uno spazio angusto“. Una triade che, quando si innamora di Nanna, cambia e diventa “io, il mio cuore, il mio spazio angusto”. Da quel momento cambierà spesso prigione, dal deserto del Negev alla costa di Ashkelon e questi passaggi saranno sempre utilizzati come punti di partenza per riflessioni sulla storia, la geografia, la letteratura e la religione della Palestina.

La posizione di Abu Srour, distante dalla società in cui è cresciuto, conferisce ai suoi resoconti del conflitto israelo-palestinese una particolare obiettività. Non è più un attore del dramma della Palestina, ma segue gli sviluppi a distanza. Gli accordi di Oslo sono una delusione. Yasser Arafat, definito “il Grande narratore”, firmò “accordi e mappe che nemmeno lui era in grado di interpretare” con lo “Stato occupante” (Abu Srour usa la parola “Israele” solo 5 volte in 323 pagine). L’11 settembre complica ulteriormente le cose per la Palestina, affossata “da una pletora di discorsi che gridavano vendetta” e dalla “reiterata assenza dalle scene delle nostre élite“.

La Primavera araba lo coglie di sorpresa e gli infonde ottimismo: “Mi ha dato gioia che una generazione ponesse fine a lunghi decenni di indifferenza, di sottomissione e di fatalisti ‘rimettiamoci a Dio’“, scrive l’autore, ancora più ottimista dopo che la rivoluzione investe l’Egitto e fa cadere il trentennale regime di Hosni Mubarak, “un vecchio faraone”. Anche qui però il disincanto arriva presto, dopo che un accordo di scambio di prigionieri fa uscire solo poche centinaia di detenuti, per lo più legati ad Hamas, perché non importa da quanto sei dentro, ma solo la tua affiliazione: “I paesi arabi non sono cambiati, sono rimasti com’erano, solo con più sangue e più morti – scrive – Una primavera balbettante e malferma, rivoluzioni scippate a chi le aveva accese, divise militari ripulite dalle loro sconfitte e acquartierate sui seggi governativi”, riflette con amarezza l’autore, che intanto in carcere consegue una laurea e un master in Scienze politiche.

Prima del 7 ottobre 2023, Abu Srour era uno degli oltre 5.000 palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Dal 7 ottobre, l’ong Addameer stima che siano stati arrestati oltre 9mila palestinesi della Cisgiordania e 640 bambini oltre ai 250 provenienti da Gaza. A maggio il ministro israeliano della Sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir, ha dichiarato, per l’ennesima volta, che la pena di morte per i prigionieri è “la giusta soluzione al problema della carcerazione”. Sempre a maggio un’inchiesta di Haaretz, Cnn e New York Times ha mostrato le inumane condizioni in cui vivono – e muoiono – i detenuti a Sde Teiman, una base militare israeliana nel deserto del Negev, convertita a prigione per i palestinesi catturati dopo l’invasione di Gaza. Dopo la denuncia di questi fatti che ricordano, per atrocità, lo scandalo di Abu Ghraib, 700 detenuti sono stati trasferiti, ma 200 rimangono ancora nella base.

Come racconta il Guardian, durante le trattative degli scorsi mesi sullo scambio di ostaggi israeliani presi da Hamas il 7 ottobre con palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, per Abu Srour è arrivata la prospettiva della libertà, ma è stata disattesa come tutte le altre volte, anche quando il suo rilascio era parte di un impegno del processo di pace del 2013 mediato dall’amministrazione Obama. Così, alla fine, terminata anche la parentesi d’amore con Nanna (“Tu non mi basti”, è la frase che gli rimane conficcata nella testa), Abu Srour, nella cella 33 del carcere di Hadarim, torna al suo unico riferimento: “In questa mia prigione, io sono il signore di questo muro, dei muri che lo hanno preceduto e di quelli che lo seguiranno. (…) Io sono il padrone di quest’angolo, il padrone di questa cella, il padrone del mio ergastolo. (…) Io sono gli anni di queste catene, sono la mia prigione e sono il prigioniero. Io sono il testimone della mia causa persa e sono il martire, sono colui che ha perso la libertà e sono la mia libertà“.

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