C’è un sistema alla base di storie come quella di Satnam Singh, il lavoratore indiano morto dopo aver perso un braccio in un’azienda agricola di Latina, essere stato messo su un furgone dal figlio del titolare ed essere stato scaricato davanti a casa senza soccorso. Lo racconta questo reportage del mensile FQ MillenniuM, diretto da Peter Gomez, uscito a ottobre 2022. Lo pubblichiamo integralmente.

Quella che conduce al tempio Sikh di Talhan è una strada sterrata e piena di buche, ma costantemente trafficata, soprattutto la domenica. Perché e quando questo gurdwara alla periferia di Jalandhar, nello Stato indiano del Punjab, sia diventato così famoso, nessuno sa spiegarlo con esattezza. In ogni caso, i fedeli, tra i quali è noto come “il tempio degli aeroplani”, non hanno dubbi: se vuoi ottenere un visto per l’estero, questo è il posto giusto. Centinaia di giovani, a piedi nudi e con il capo coperto, si affollano all’ingresso: quasi tutti tengono in mano un aereo di plastica, mentre sfilano sotto il Nishan Sahib, la bandiera arancione con l’effigie di una spada a doppio taglio, simbolo per i Sikh della relazione tra potere temporale e spirituale. «Ho ottenuto il visto per il Canada appena un mese dopo essere entrato qui a pregare», assicura Gurpreet, che porta con sé una scatola di dolci da lasciare come offerta e due amici, entrambi con un aeroplano e la speranza di avere la sua stessa fortuna.

Nella stanza del Sri Guru Granth Sahib, il libro sacro, i volontari al servizio del tempio, i Sewadar, si affannano continuamente per evitare che le decine di aeroplani che si accatastano un minuto dopo l’altro ostruiscano il passaggio. «Ogni settimana raccogliamo circa 5 mila aerei, alcuni ce li spediscono persino via corriere», racconta Baljit Singh, uno degli amministratori del tempio. «È un bene che la gente abbia fede, ma il motivo per cui tanti giovani vogliono andarsene è che qui per loro non c’è futuro. Il nostro Paese si sta svuotando, e questo mi riempie di tristezza».

Appena fuori dal tempio, sacro e profano si mescolano: decine di giganteschi e colorati cartelloni delle agenzie di viaggio fanno ombra alle bancarelle che vendono i piccoli aeroplani di plastica. Promettono visti per il Canada, gli Stati Uniti e l’Europa. Ma la realtà che si nasconde dietro questi annunci è molto meno colorata. A Jalandhar, una città che conta circa un milione di abitanti, ci sono in tutto 1.367 agenti di viaggio registrati. Ma la stima degli addetti ai lavori è che quelli che operano in maniera ufficiosa e, spesso, illegale siano almeno tre volte tanto. In tutto il Punjab sarebbero addirittura 6 mila.

Tra gli Stati più ricchi del subcontinente, il Punjab ha un tasso di emigrazione verso l’estero molto alto, il secondo dopo il Kerala. In media un Punjabi su 33 migra all’estero, con percentuali che nella cosiddetta “NRI belt”, “la cintura dei residenti all’estero”, dove si trova appunto Jalandhar, sono ben più alte alte, con interi villaggi svuotati.

LA CARICA DEGLI STAGIONALI – Mentre per il Canada, per esempio, esiste la possibilità per chi ha completato il ciclo di istruzione superiore di fare richiesta per un visto studentesco (da qui il proliferare di consulenti e scuole per superare i test di inglese obbligatori), per l’Italia, destinazione scelta da chi ha meno possibilità economiche e non ha potuto terminare gli studi, le cose sono più complicate e chi ha un passaporto indiano non può entrare liberamente nel nostro Paese. Una via legale esiste: quella dei visti per lavoro stagionale o subordinato. Ma un canale centralizzato e istituzionalizzato per farne richiesta non c’è. Non è quindi un caso che le agenzie specializzate sul nostro Paese siano anche quelle più losche. Come suggerito da contatti locali, ci affidiamo al passaparola e in poco più di mezza giornata ne troviamo diverse in una trafficata zona a sud del centro, proprio accanto ad una delle sedi VFS Global, un’agenzia di supporto alle domande di visto a cui spesso si appoggiano le Ambasciate italiane.

Parshotam Lal, un uomo sulla sessantina, baffi neri e modi eleganti, è il titolare di Dadra Travel, un’agenzia di viaggi fondata da suo padre. Si fa chiamare “Italy Wale”, il “tizio dell’Italia”. Conosce a fondo la complessa procedura per ottenere un visto di lavoro stagionale per il nostro Paese: «Serve un contratto di lavoro e il nulla osta della Prefettura italiana. Latina – ci dice, lasciandoci sorpresi per la sua conoscenza del territorio italiano – è la destinazione numero uno per chi vuole lavorare in Italia». La provincia di Latina, infatti, con 13 mila residenti ufficiali, ospita la comunità Punjabi più grande in Italia ed è uno dei distretti ortofrutticoli più importanti d’Europa con esportazioni verso l’estero pari nel 2020 a 1.143 milioni di euro. In ogni caso, sostiene Lal, il suo lavoro si limita alla consegna dei documenti in Ambasciata per conto dei clienti e ad assicurarsi che tutte le formalità siano a posto. La sua tariffa? Tra i 25 e i 150 euro, ci assicura.

A poche centinaia di metri, un’altra agenzia, tappezzata all’esterno di bandiere tricolori e di scritte in italiano promette “Nulla osta, permessi di lavoro, ricongiungimenti familiari, pratiche di re-ingresso”. All’interno, un modesto ufficio con un paio di scrivanie, una curiosa nota, stampata su un foglio A4 e appesa alla parete con lo scotch, contraddice quanto scritto all’esterno: “Non siamo un’agenzia di reclutamento e non procuriamo impieghi all’estero”. Il proprietario, Sanjeev Lamba, circa 40 anni, parla un italiano impeccabile, con un marcato accento settentrionale: ha vissuto a Brescia per 5 anni, dice, poi nel 2013 è tornato qui e ha aperto l’agenzia. Nel suo ufficio tiene in bella mostra alcuni modellini delle auto della polizia italiana e dei carabinieri.

Si mostra gentile, ma ha fretta di mandarci via: «Non ci occupiamo di molto se non prenotare i biglietti aerei e tradurre i documenti», afferma. Per vederci chiaro, però, qualche settimana dopo la nostra visita, chiediamo a un collega del posto di visitare le due agenzie fingendosi interessato a ottenere un visto per l’Italia. A Lamba immediatamente lo rassicurano: «Ci sono molti modi per mandarti in Italia», basta pagare. A Dadra sono più circospetti e lo fanno attendere a lungo, ripetendogli più volte le stesse domande: da quale villaggio viene, perché vuole andare in Italia, chi gli ha dato i loro contatti. L’attesa alla fine paga e il reporter incontra altre due famiglie che stanno prendendo accordi per ottenere un visto per l’Italia. Un giovane, accompagnato dal padre, è venuto a lasciare il suo passaporto e a portare un acconto: 6 lakh in contanti, circa 7mila euro.

LA BOSSI-FINI FA ACQUA – Nel 2012 il Punjab ha approvato una legge contro il traffico di esseri umani, proprio per tentare di arginare un business in buona parte fuori controllo, imponendo alle agenzie di viaggio la registrazione e una tassa. A dieci anni di distanza però, i risultati ottenuti sono pochi e i casi denunciati sono solo le truffe vere e proprie, a opera di agenti che si rendono irreperibili dopo aver intascato gli acconti. «Se qualcuno è in torto, sono le persone che cercano di ottenere un visto in maniera illegale», afferma Neeraja Voruvuru, direttrice aggiunta della polizia del Punjab, per il dipartimento degli indiani residenti all’estero. «Come agenti di polizia, l’unica cosa che possiamo fare è investigare sulla base delle denunce. E queste persone, che sono migranti illegali, di certo non vengono a informarci», dice.

In realtà però, la distinzione tra migranti regolari e irregolari, non è così semplice. Il visto di lavoro stagionale per il quale i migranti che entrano in Italia dal Punjab sono costretti a pagare in media tra i 10 e i 15mila euro, è un visto regolare dal punto di vista formale. Al massimo è il contratto di lavoro usato per ottenerlo a non essere “veritiero”. L’attuale normativa italiana sul tema è quella del testo unico sull’immigrazione, modificato vent’anni fa dalla famigerata legge “Bossi-Fini”, che pensata con l’obiettivo di cancellare la migrazione irregolare, ha in realtà alimentato proprio quei fenomeni che voleva contrastare.

In pratica, ogni anno un “decreto Flussi” varato dal Governo stabilisce la quota di lavoratori stranieri, subordinati e stagionali, provenienti da determinati Paesi, che è possibile assumere per ogni provincia. Il datore di lavoro deve quindi presentare una domanda di nulla osta, con proposta del contratto di lavoro e copia del documento dello straniero che intende assumere. «Questo meccanismo si basa sull’idea che l’incontro tra domanda e offerta di lavoro avvenga all’estero, tra un lavoratore e un datore di lavoro che non si sono mai incontrati», spiega Francesco Mason, avvocato dell’Asgi, l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione. «È semplicemente assurdo pensare che questo sistema possa funzionare in maniera regolare. Sono vent’anni che lo ripetiamo».

Le liste di collocamento in Ambasciata, inizialmente ipotizzate, non sono mai state realizzate. Così, il sistema si basa sugli intermediari ed è doppiamente distorto: da un lato costringe chi vuole partire a indebitarsi per ottenere un visto e, dall’altro, il decreto Flussi è ciclicamente utilizzato come una sorta di sanatoria per i migranti già presenti in Italia, ma con un visto scaduto. Decine di interviste con lavoratori Punjabi a Latina, con la Flai-Cgil e con le associazioni che lavorano nella zona offrendo servizi di sostegno alla salute e al lavoro lo confermano: il ruolo degli agenti e il debito sono delle costanti. Gli agenti però, sono solo un pezzo del puzzle. Daria Monsurrò, pubblico ministero a Latina da oltre dieci anni, non ha dubbi: «I soggetti che fanno parte di questa consorteria criminale sono sempre gli stessi: c’è l’intermediario indiano, un datore di lavoro che dietro pagamento fornisce tutta la documentazione necessaria, e un legale o un consulente del lavoro che sa come districarsi nella burocrazia».

UN SISTEMA CRIMINALE – Di casi simili Monsurrò ne segue personalmente decine ogni anno: «È chiaramente un sistema», afferma. Un sistema che spesso opera attraverso una vera e propria organizzazione criminale. In tutto, dal 2015 a oggi i procedimenti iscritti nella Procura di Latina in base agli articoli sullo sfruttamento dell’immigrazione clandestina e la tratta di esseri umani sono stati 132. Quelli legati alla falsificazione dei visti e dei permessi di soggiorno sono invece 56.

Ma arrivare al processo è molto complesso: le indagini durano anni e senza prove documentali i casi si fondano quasi esclusivamente sulle testimonianze delle vittime e sulle intercettazioni. E si fermano sempre al confine: «Più volte ci è capitato di intercettare soggetti che si trovavano in India o di avere indizi di colpevolezza a carico di soggetti all’estero, ma la mancanza di trattati ad hoc e la scarsità di mezzi ci impediscono di andare oltre», spiega Monsurrò.

I pochi casi che arrivano a sentenza sono quindi solo la punta dell’iceberg. A marzo scorso per esempio, la Corte d’Assise ha confermato una condanna a 21 imputati (imprenditori e intermediari) per fatti accaduti tra il 2007 e il 2011 riguardanti lo sfruttamento dell’immigrazione clandestina. Il pm ha richiesto ben 96 milioni di euro di multe, calcolate in base a quanti immigrati entrarono sul suolo italiano in maniera illecita. Il Tribunale alla fine ha stabilito multe agli imprenditori per un totale che ha raggiunto circa 15 milioni di euro.

Altri casi recenti, come “Ascaris” o “Job Tax”, ora in fase di dibattimento, hanno coinvolto tra gli altri un ispettore del lavoro e un dipendente dello Sportello Unico immigrazione della Prefettura di Latina. In ogni caso, la questione difficilmente può essere risolta in sede giudiziaria.

«Il sistema attuale, non solo espone i lavoratori al rischio di grave sfruttamento, ma non risponde nemmeno alle esigenze del mercato del lavoro», afferma Mason. «Dal ’98 ad oggi sono entrati in Italia 2 milioni di lavoratori, tra cui 8 mila stagionali. Nello stesso periodo sono state fatte ben cinque sanatorie – in teoria uno strumento straordinario – con cui sono stati regolarizzati altri due milioni di persone. Questo significa che negli anni i decreti Flussi hanno risposto ad appena metà della domanda di impiego ed è la prova che la rigidità del sistema ha implicato la necessità di trovare altri strumenti – illegali – per tamponare la situazione».

UNA POSSIBILE SOLUZIONE – Le alternative? La reintroduzione della chiamata diretta, attraverso uno “sponsor”, come è stato sperimentato per tre anni prima della legge Bossi Fini, e l’introduzione di un “permesso di ricerca lavoro”, come chiede una proposta di legge di iniziativa popolare presentata nel 2017 e sostenuta anche da Asgi attraverso la campagna “Ero straniero”.
«La normativa attuale – conclude Mason –, si basa sull’assunto che la rigidità dei controlli disincentivi gli arrivi, il che però è molto discutibile. Come ha dimostrato l’ingresso della Romania nell’Ue e la libera circolazione dei lavoratori di quel Paese, in realtà la libertà di spostamento risponde molto più delle limitazioni alle esigenze del mercato e a quelle dei lavoratori».

Nel frattempo, in Punjab si continua a partire. Arman ha da poco compiuto vent’anni. Il villaggio in cui è cresciuto è circondato da campi di riso e grano, ma i giovani sono sempre meno. «Chi è andato in Canada, chi negli Stati Uniti, chi in Italia», dice Arman, mentre ci accompagna a casa sua. Nel villaggio le case più grandi e più belle, quasi sempre vuote, sono quelle di chi è andato all’estero.

Arman ha perso il padre quando era piccolo. La madre si è risposata e lui e la sorella sono rimasti a vivere con lo zio. È andato a scuola ma non è riuscito a diplomarsi: già da adolescente ha iniziato a dare una mano allo zio nei campi. «Ho deciso che sarei partito un anno e mezzo fa: ho visto quanto riescono a reinvestire quelli che se ne sono andati. Ora è il mio turno, voglio fare la stessa cosa per la mia famiglia», dice. Un connazionale, che vive a Latina ma è originario del villaggio, ha promesso di aiutarlo procurandogli un contratto e un lavoro nei campi. «Di soldi non abbiamo ancora parlato – spiega Arman, con reticenza – ma ne ho discusso con la mia famiglia e loro mi aiuteranno a coprire le spese. Poi appena inizierò a guadagnare restituirò tutto».

Da qualche mese Arman ha iniziato ad andare in palestra: «Sono sempre stato molto magro, ma voglio irrobustirmi perché so che il lavoro in Italia potrebbe essere duro», dice. Tutto sommato, però, le condizioni di lavoro non lo preoccupano: «Ho sentito tanti conoscenti dirmi che la vita all’estero è dura. Ma io credo sia solo invidia: non vogliono che anche noi facciamo fortuna. Se davvero le cose sono così difficili là, perché nessuno torna indietro?».

La verità è che per molti, schiacciati dallo sfruttamento, tornare dalle proprie famiglie a mani vuote, dopo aver speso tutto per ottenere un visto e con un debito ancora da pagare, semplicemente non è un’opzione.

L’inchiesta è stata realizzata grazie al sostegno del Journalism Fund – Modern Slavery Unveiled
Le immagini di questo reportage sono state scattate da Marco Valle

Da FQ Milllennium n. 61, ottobre 2022

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