La Spagna ha dato all’Italia una lezione di calcio su tutti i fronti: solo la grandezza di Donnarumma e i misteri del pallone possono giustificare il risultato di 1-0. A portieri invertiti, finiva 4-0. Sarebbe stato non solo più corretto, ma anche più salutare. Luciano Spalletti si è aggrappato al fattore stanchezza: non ci risulta che i calciatori spagnoli abbiano trascorso lunghe vacanze. Donnarumma ha parlato di eccesso di errori. La Rai – e bastava guardare le facce pietrificate dei vari Tardelli, Stramaccioni, Adani e Antinelli – ha cercato di scuotere il morale depresso di Spalletti dicendo “con la Croazia ci sarà meno pressione…”.
Meno pressione? Siamo già allo psicodramma. Immediatamente ieri sera sono stati tratteggiati i vari scenari: basta un pareggio per qualificarsi; in caso di sconfitta scatta la questione delle terze ripescabili – come accadde, per dire, a Usa ’94 -; i croati sono stanchi e lenti; l’Italia, quando è in difficoltà, dà il meglio di sé. Calcoli e chiacchiere a parte, resta un nodo di fondo: la qualità del nostro calcio. Pochissime volte la Nazionale è stata messa all’angolo dall’avversario come a Gelsenkirchen. L’Italia è stata sovrastata a tutti i livelli: tecnico, tattico, atletico, persino comportamentale. Gli azzurri hanno piazzato qualche legnata: la Spagna, tranne qualche protesta umanamente comprensibile, non ha mai perso il controllo della situazione.
Il divario più profondo è stato quello che si riassume in una parola: qualità. Gli spagnoli hanno una qualità eccelsa perché il loro calcio ruota intorno alla tecnica. Nei settori giovanili, a partire dalle fasce di età più basse, si coltiva l’ABC del pallone. La tattica e i moduli arrivano dopo, quando sono state sviluppati i fondamentali. Gli spagnoli sono abituati a gestire il pallone ad alta velocità perché i piedi consentono di parlare questo linguaggio. In Italia la tattica e le tattiche da decenni oscurano la tecnica di base: quando incontriamo avversari capaci di muovere il pallone ad alta velocità, abili nel saltare l’uomo e bravissimi nel pressing, vengono alla luce i nostri limiti. L’Italia era già affondata a Wembley contro l’Inghilterra. Contro la Spagna c’è stato, più doloroso, il bis.
Sono iniziati i primi processi e le analisi severe del post Spagna. Sono gli stessi giornali che ieri suonavano la tromba glorificando l’Italia e sono gli stessi commentatori che nelle chiacchiere dell’immediato prepartita parlavano con ottimismo della sfida imminente contro la banda di Morata. Perché noi siamo questi da sempre, con l’aggravante che viviamo in tempi di nazionalismo pompato dalla propaganda meloniana. “Italianiiii”, come parodiava l’immenso Totò.
È già in circolo la vecchia storia dell’eccesso di stranieri del nostro calcio. Altra tesi abusata e superficiale: anche in Spagna, Inghilterra e Germania abbondano gli stranieri. Le vere questioni di fondo sono altre. La prima: il lavoro e le dinamiche dei settori giovanili. La seconda: le politiche delle società. Nei vivai bisogna ripartire dalla tecnica e non legare il destino degli allenatori ai risultati sin dai campionati dei bambini. I presidenti, invece di reclamare sostegni a un settore profondamente indebitato dalle loro manie di grandezza, mostrino di avere coraggio nei fatti, dando fiducia ai migliori talenti prodotti dalle “cantere” made in Italy. Bisogna insegnare ai bambini a saltare l’avversario, a giocare con i due piedi, a liberare la fantasia e ad aver il coraggio di osare. Siamo invece condannati da anni al passaggio all’indietro: è la metafora del nostro calcio.