“Quale resistenza attiva e violenta avrebbe potuto porre in essere Arnaldo Cestaro (di anni 62) per costringere gli operatori a reagire, provocandogli la frattura dell’ulna e del perone?”. La domanda l’hanno messa nero su bianco i giudici di primo grado al processo per la sanguinosa irruzione della polizia alla scuola Diaz, la notte del 21 luglio 2001, al termine del G8 di Genova. In effetti Arnaldo Cestaro, rottamaio ad Agugliaro in provincia di Vicenza, morto a 85 anni, era la prova vivente che smentiva la versione poliziesca sulla “perquisizione” al liceo genovese adibito a dormitorio per i manifestanti che protestavano contro il vertice dei “Grandi della terra” (l’ottavo Grande, pensate un po’, era Vladimir Putin. Altri tempi).
Perché la prova vivente? Perché bastava incontrarlo, guardarlo, sentirlo raccontare con la sua marcata cadenza vicentina per capire che quella notte alla Diaz non poteva essere andata come raccontava la Polizia di Stato (e il governo, guidato allora da Silvio Berlusconi). All’epoca Cestaro era appunto un signore di 62 anni con gli occhiali, non certo alto, abbastanza esile. L’ipotesi che potesse essersi scagliato contro agenti corazzati di caschi e protezioni, e dotati dei micidiali manganelli tonfa, appariva surreale.
Eppure dopo l’irruzione finì, come tanti altri all’ospedale Galliera, dove i sanitari compilarono il seguente referto: “Frattura scomposta con distacco osseo del III distale dell’ulna destra, distacco del processo stiloideo, frattura lievemente scomposta del II distale del perone destro, fratture costali multiple a destra, ricoverato dal 23 al 27/7/01, lesioni gravi con conseguente incapacità di attendere alle normali occupazioni per oltre 40 gg., nonché indebolimento permanente dell’organo della prensione e della deambulazione”. Per alleviare i danni “permanenti” subiti quella notte, Cestaro tornò più volte sotto i ferri.
La perquisizione alla Diaz fu giustificata dal sospetto che la scuola fosse un covo di “black bloc“, i manifestanti del blocco nero che avevano innescato gli scontri più violenti fin dalla mattina del 20 luglio. Anche in questo caso, la storia di Cestaro smentiva tutto e subito. Lui era un militante di Rifondazione comunista, arrivato in “corriera”, come diceva lui, da Vicenza. Aveva pensato di fermarsi a dormire a Genova per portare un fiore sulla tomba della figlia di una compaesana, e aveva chiesto consiglio su dove andare a dormire. A lui, come a tanti altri, era stata indicata la scuola, in parte concessa dalla Provincia di Genova ai manifestanti come dormitorio. Cose note a tutti, nei giorni del G8: quel complesso scolastico non era un “covo” del black bloc, ma un posto dove chiunque poteva accomodarsi. C’erano anche dei manifestanti del blocco nero, mescolati a tutti gli altri? Non lo sapremo mai, data la modalità violenta e caotica della “perquisizione”.
Ultimo oltraggio di Stato, a tutti gli arrestati alla Diaz – ben 93 persone – fu contestato il reato associazione per delinquere finalizzata alla devastazione e al saccheggio, una cosetta che può costare una quindicina d’anni di galera. Toccò anche a Cestaro finire nel novero dei “giovani” – così recitava il verbale di arresto collettivo – di cui era “certa” l’appartenenza “all’organigramma del blocco nero”. E davvero facevi molta fatica a figurartelo mentre si calava in testa il cappuccio di una felpa nera per dare fuoco a un bancomat. L’accusa crollò poi in fase istruttoria, per tutti i 93.
Arnaldo Cestaro, militante di sinistra e di tante cause, dai No Tav al pacifismo, diventò presto una colonna del Comitato Verità e giustizia per Genova, sempre presente alle commemorazioni e alle udienze clou dei processi. Il suo nome resterà impresso anche nella giurisprudenza internazionale. La sentenza della Corte europea per i diritti umani che nel 2015 gli diede ragione nel caso “Cestaro vs Italia” fu la prima a condannare il nostro Paese per aver permesso e non aver punito in modo adeguato la pratica della tortura. Nel frattempo la sentenza definitiva sull’irruzione alla Diaz aveva confermato in pieno quello che la prova vivente poteva fin da subito dimostrare a tutti.