Una lezione di calcio. Per certi versi pure una brutta figura. Che non si può ridurre soltanto alla maggior “freschezza” degli avversari, qualsiasi cosa ciò voglia dire. La spiegazione di Spalletti, che sostanzialmente ha dato la colpa alla condizione fisica, stavolta suona come un alibi. Per la sua Italia, e per lo stesso ct. Parliamoci chiaro: la scusa delle gambe proprio non regge. La nazionale non è un club, che va in ritiro e può sbagliare la preparazione. Alla fine di una stagione lunghissima e massacrante ci sono arrivati bene o male tutti i giocatori di tutti i Paesi nelle stesse condizioni: non c’è una valida ragione al mondo per cui gli spagnoli dovessero correre di più degli italiani. Semmai si può dire che abbiano corso meglio, perché come diceva il grande Roberto Baggio (quanto ce ne sarebbe bisogno oggi), “è sempre meglio far correre la palla, perché lei non suda”. Dominando il gioco, spostando il baricentro nella nostra metà campo e tenendo sempre il possesso, la Spagna ha costretto gli azzurri a rincorrere per novanta minuti, mandandoli in debito d’ossigeno e spingendoli inevitabilmente all’errore, come in occasione dell’autogol di Calafiori, o dei ripetuti svarioni di Di Lorenzo.

Si ritorna allora alla pochezza della rosa italiana: siamo scarsi, su questo c’è poco da discutere. A parte un paio di giocatori di reale caratura internazionale, tipo Barella o Bastoni, questa è una squadra mediocre, ed è mediocre soprattutto negli ultimi 20-30 metri di campo, dove si fa la differenza, e noi non produciamo un talento vero da oltre un decennio. Ma forse nemmeno questo basta a spiegare la debacle di Gelsenkirchen. Perché la differenza con la Spagna c’è, è evidente, ma non abissale come invece è sembrato in campo. Tanto più che non parliamo certo della Spagna migliore di sempre, anzi. E poi nel calcio le idee spesso possono fare la differenza anche più dei giocatori.

Ecco, la verità è che l’Italia è sembrata proprio non averne. E questo chiama in causa direttamente lo stesso Spalletti. Accolto come l’uomo della provvidenza, l’unico in grado di salvare la baracca, dopo la mancata qualificazione ai Mondiali e il tradimento di Mancini. Invece fin qui l’effetto del tecnico di Certaldo si è visto più a parole che nei fatti. Tante chiacchiere, decaloghi, interviste, proclami fuori dal campo, poca sostanza. Del calcio relazionale e caratteriale delle squadre di Spalletti nell’Italia non si ritrova quasi nulla: zero schemi, scarsa personalità, il tentativo mal riuscito di conciliare le caratteristiche dei giocatori (che sembrano più adatti a giocare a tre, non foss’altro l’ossatura dell’Inter è abituata a quel modulo con Inzaghi), con le proprie idee di gioco. Il risultato è una squadra slegata, passiva e con tanti interpreti che sembrano a disagio. E non si dica che il ct in un mese all’anno non può incidere, perché ad esempio Antonio Conte nel 2016 con una nazionale ancora più scarsa di questa riuscì a disputare un grande Europeo, e lo stesso Mancini l’ha vinto tre anni fa certo più con la forza del gruppo che delle individualità. Lunedì contro la Croazia è già una gara senza ritorno. Servirà l’Italia di Spalletti, se esiste.

Twitter: @lVendemiale

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