Mentre il 5 giugno si celebrava la giornata internazionale dell’ambiente, media internazionali come El Pais si facevano eco della notizia della riallocazione dei primi rifugiati climatici in America Latina. Si tratta di 300 famiglie dell’arcipelago di Guna Yala (Panama), sfollate a causa dei cambiamenti climatici che hanno provocato l’innalzamento dell’acqua e il conseguente inabissamento dell’isola sulla quale hanno vissuto da sempre. Sì, perché gli indigeni Guna appartengono alle popolazioni ancestrali del continente che oggi è chiamato America e proprio dalla loro lingua, il Dulegaya, si è originato il nome di Abya Yala (Terra Matura, Terra Viva, Terra in fioritura), termine con il quale oggi i movimenti sociali di sinistra, confederazioni indigene e centri di pensiero facenti riferimento all’epistemologia del sud o al socialismo del XXI secolo chiamano il continente, rivendicando un significato anti egemonico.

Sfollati, dicevamo, e trasferiti dal governo in un quartiere di 300 case di 40 mq ciascuna, costruito appositamente per l’occasione, disboscando 14 ettari di foresta in una zona montagnosa sulla terra ferma, a circa un’ora e mezza di tragitto dall’isola in questione. Un cambio traumatico ma necessario, considerando che l’isola di Cartí Sugdub non offriva più delle condizioni di vita accettabili, ponendo in pericolo quotidianamente la vita dei suoi abitanti. Isola che era una delle 49 abitate in un insieme di 365 piccole isole e isolotti che conformano l’arcipelago di Guna Yala, territorio della Contea indigena di Guna Yala, situata lungo la costa caraibica orientale di Panama. Un territorio che come dicevamo è identità ancestrale di questa popolazione indigena, che per difenderlo ha anche fatto scoppiare una rivoluzione, passata alla storia come la rivoluzione Dule nel 1925 che ha originato l’effimera repubblica di Tule (sul golfo di Urabá, a cavallo del confine colombiano).

Oggi questa popolazione indigena gode di autonomia territoriale e amministrativa dentro la Repubblica di Panama (anche la parola Panama proverrebbe dal termine Dulegaya di Panna Mai) con la costituzione della Comarca (contea) di Guna Yala, costituita con l’antico nome di San Blas nel 1938. L’economia di questo territorio si basa su attività di sussistenza e sul turismo, i cui flussi vengono gestiti direttamente dalla comunità che offre tutti i servizi necessari per poter godere di questo paradiso terrestre in modo armonico e non massificato. Il cambiamento climatico sta però colpendo duramente lo stile di vita di questo popolo in un paese come Panama, dove i conflitti ambientali stanno diventando il principale generatore di attriti e scontri sociali. In questo senso basti ricordare quanto successo alla fine del 2023 quando al grido di “la tierra no se vende, se ama y se defiende” ( la terra non si vende, si ama e si difende) migliaia di persone hanno protestato per fermare un contratto truffa firmato dal governo, che avrebbe permesso a un’impresa mineraria canadese di estendere i diritti di scavo e sfruttamento di un territorio di 12.000 ettari nel distretto di Donoso, provincia di Colón. Il nuovo presidente José Raúl Mulino, che inizierà il suo mandato il 1° luglio sostituendo Laurentino Cortizo, eredita dunque una situazione tutt’altro che idilliaca.

Sì, perché se questa è la prima volta che uno stato latinoamericano si fa carico della ricollocazione di un’intera comunità di rifugiati climatici, probabilmente non sarà l’ultima per Panama, che ha già realizzato piani negli anni scorsi per accogliere sulla terraferma almeno 1300 persone a rischio nell’arcipelago di Guna Yala: con un costo in pianificazione e infrastrutture che supera già 12 milioni di dollari. Un primo passo che potrebbe però essere solo un “cerotto” di fronte ad una crisi sistemica che ha portato anche problemi con il Canale di Panama, per via della siccità e la conseguente mancanza di acqua per il funzionamento di questo megaprogetto, vitale per il commercio mondiale.

Inoltre, sottolineavo come i problemi legati all’ambiente non si esauriscano a Panama con la questione “Guna Yala”: si tratta di un vero e proprio collasso sistemico dovuto all’azione umana e alla continua predazione delle risorse naturali. La chiusura della miniera di rame nella provincia di Colón è stata una piccola (grande) vittoria, ma rimangono aperti ancora molti fronti per la difesa del territorio. Anche le altre popolazioni indigene di Panama lottano costantemente per difendere l’integrità dei loro territori, come successo al popolo Ngäbe-Buglé e al fiume Tabasará, simbolo di questa comunità e “ucciso” da un megaprogetto idroelettrico. E nemmeno la capitale, Città di Panamà, è esente dalle problematiche ambientali, come dimostra per esempio il dantesco caso del Cerro Patacón: un ecomostro dove si concentra più del 40% della spazzatura prodotta in un paese di 4,5 milioni di abitanti, discarica dalle dimensioni titaniche dove arrivano circa 2 tonnellate di rifiuti al giorno e che si trova a solo 3 km dalla città.

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