Ha denunciato tre volte il figlio per salvargli la vita. All’inizio la chiamavano “madre sbirro“, ma la sua è soprattutto una storia di coraggio. E dolore. Pina Lupo ha 59 anni e da 22 convive e lotta con la tossicodipendenza di suo figlio Giuliano. E a Niscemi, in provincia di Caltanissetta, fare i conti con le dipendenze è ancora più difficile.

Siamo al centro della Sicilia, un posto scelto dagli Stati Uniti per installare le antenne del Muos, il mega sistema di difesa militare. Qui il “grande orecchio” non è l’unica fonte di discussione. In città, infatti, negli ultimi anni è tornata a girare tanta droga, come documentano gli ultimi blitz delle Forze dell’Ordine. Nascosta nei telai delle porte, venduta a domicilio “cruda” o “cotta”, a Niscemi persino il cimitero è diventato una piazza di spaccio. Un fenomeno diventato ormai una vera e propria emergenza, mentre in città non c’è un servizio di supporto per chi è tossicodipendente: per raggiungere quello più vicino bisogna mettersi in macchina tra i campi di carciofi in direzione Gela, o guidare fino a Caltanissetta, a un’ora di distanza.

“Ha cominciato quando non aveva neanche 13 anni” – La storia di Giuliano è simile a quella di tanti coetanei: comincia giovanissimo con gli spinelli, poi passa alla ketamina, fino ad arrivare alla cocaina e al crack. “Non aveva compiuto neanche 13 anni. Ho capito subito che qualcosa non andava, non voleva neanche svegliarsi per andare a scuola”, racconta Pina, con due occhiaie scavate dal pianto che nascondono due grandi occhi cerulei. Dopo aver trovato delle dosi di marijuana nello zaino del figlio, la donna cerca aiuto nel SerT più vicino, quello di Gela. Ma riceve la prima porta in faccia: “Mi sono sentita dire che ero una mamma troppo ansiosa – spiega – che era solo una fase, dovevo stare tranquilla”. Una risposta anomala se pensiamo che a fornirla è una struttura specializzata nel contrasto alle dipendenze. Passano gli anni e quella “fase” non si esaurisce, ma anzi si trasforma: da ragazzino iperattivo Giuliano diventa apatico. “Amava il calcio – dice la madre – giocava in porta e il Parma lo voleva nelle giovanili. Lo chiamavano il nuovo Buffon“.

“Era il nuovo Buffon, ha smesso per la droga” – Presto però Giuliano abbandona il pallone: a 17 anni il primo episodio di overdose lo fa finire in coma. Il ragazzo riesce a salvarsi dalla morte ma la dipendenza dalle sostanze – soprattutto il crack – continua. “Vedere ridotta a brandelli la vita di un figlio è terribile – spiega Pina – ci si sente soli e impotenti”. Più passa il tempo, più l’unica cosa che conta per Giuliano sono i soldi per comprare le dosi. Così la madre diventa il suo bancomat: vende a poco a poco gli averi di famiglia fino a indebitarsi. “L’assenza di cocaina lo rendeva violento – racconta – pretendeva soldi, eravamo esasperati, non bastavano mai”. Pina le prova tutte: cerca aiuto nelle forze dell’ordine denunciando l’esistenza delle piazze di spaccio. In paese c’è chi inizia a chiamarla “mamma sbirro”, chi invece “mamma coraggio”. Vende anche una casa per mandare il figlio in Australia. Ma dopo i primi mesi di euforia Giuliano torna a Niscemi e ricomincia tutto come prima.

“L’ho denunciato, mi sono sentita un verme” – Dopo l’ennesima overdose, Pina decide di denunciarlo per obbligarlo alle cure. “Mi hanno detto che restava l’unica cosa da fare – ricorda – mi sono sentita un verme e tuttora mi chiedo se è stata la scelta giusta”. La prima denuncia arriva quando il ragazzo ha 24 anni, per estorsione. Giuliano viene messo in comunità, poi esce e ricomincia ancora una volta con la droga. Mamma Pina lo denuncia una seconda volta nel 2016, per maltrattamenti. Questa volta il ragazzo finisce in carcere, in cella subisce diversi pestaggi e violenze psicologiche. Ed è tutto inutile perché la droga – come rivela una recente inchiesta della Procura di Napoli – continua a girare, anche dentro i penitenziari. “Giuliano si è ritrovato in cella con uno dei suoi pusher – spiega la madre – quando ho avvertito della situazione mi è stato risposto che la prigione non è un hotel e non si sceglie con chi dormire”.

“Denunciare un figlio è come ucciderlo” – Né le comunità, né il carcere riescono a tirare Giuliano fuori dalla morsa della dipendenza: alla fine del 2023 arriva anche una terza denuncia. “Per disperazione ti ritrovi a fare le cose più assurde: denunciare un figlio è un po’ come ucciderlo, non sai se lo porti in un posto in cui starà bene ma non hai altra scelta”, continua Pina e il dolore lo si avverte da come scandisce le parole.

“Gli spacciatori lo aspettano” – A gennaio la signora Lupo rilascia un’intervista a Chi l’ha visto? e la sua storia diventa pubblica. Adesso Giuliano è di nuovo ospite dell’ennesima comunità una struttura di Mazara del Vallo, nel Trapanese. Dorme nello stesso letto di un ragazzo che, dopo essere uscito dal centro, ha perso la vita per overdose. Pina ha paura: “Quando esci sono tutti lì ad aspettarti, come degli avvoltoi. Gli spacciatori sono un esercito, vivono di questo, la droga è una fonte di guadagno incredibile. La dipendenza è una gabbia da cui sembra impossibile uscire. Per entrare nelle comunità ci sono trafile burocratiche infinite, e spesso le strutture non sono adeguate”.

Pochi fondi e personale – Sotto lo stesso tetto, si ritrovano tossicodipendenti e spacciatori-assuntori, e la droga certe volte continua girare anche in comunità. Mentre i SerD, i servizi di supporto per le dipendenze, continuano a registrare sempre gli stessi problemi: dal 2014 il servizio che si occupa dei tossicodipendenti assiste anche persone affette da ludopatia e altre dipendenze, come quella da smartphone. Ma continuano a mancare fondi e personale: a Gela sono 369 gli assistiti, con un solo medico disponibile. Numeri che peggiorano se si guarda all’intera provincia di Caltanissetta, dove i medici sono appena due per 1.756 pazienti.

“Dobbiamo chiedere soluzioni concrete” – Intanto, dopo l’intervista in tv, mamma Pina è diventata un punto di riferimento per chi vive il dramma della dipendenza dentro le mura domestiche. Il suo telefono squilla ogni giorno: la cercano genitori che in tutta Italia, da Trieste a Napoli, stanno attraversando le sue stesse difficoltà. “Il sentimento è lo stesso per tutti ci sentiamo abbandonati – dice lei – Molti genitori provano vergogna, si sentono responsabili e tengono i loro drammi per sé. Non dobbiamo avere paura, dobbiamo unirci, condividere le nostre storie, scendere nelle piazze per chiedere delle soluzioni concrete. Nessuno è immune da questo male, i figli li abbiamo tutti”.

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