Il motivo recondito dell’improvviso invito della premier Meloni a papa Francesco perché partecipasse al vertice del G7 si svela in queste ore. Giorgia Meloni ha paura dei referendum che incombono sull’autonomia differenziata e sul premierato, e vorrebbe che il Vaticano si mantenesse neutrale.

La leader di Fratelli d’Italia non ha mai avuto particolare simpatia per il pontefice argentino. In Io sono Giorgia, la sua autobiografia, riserva lodi sperticate al polacco Wojtyla, da lei definito “il più grande pontefice dell’era moderna e il più grande statista di tutto il Novecento”. Di Bergoglio – siamo nel 2021, palazzo Chigi non è stato ancora conquistato – diceva prudentemente: “Ammetto che non sempre ho compreso papa Francesco”.

Ora che è al governo, deve fare i conti con il peso sociale della gerarchia cattolica. Vaticano e Cei hanno perso da tempo la capacità di muovere le pedine partitiche in Italia. Non sono più i tempi in cui un presidente della Repubblica (Scalfaro) chiedeva al presidente della Cei, cardinal Ruini, di aiutarlo a disarcionare Berlusconi (e Ruini si rifiutò). Ma se la possibilità di interagire con i partiti è fortemente calata, resta la capacità della rete organizzata ecclesiastica di influenzare – per una parte naturalmente – il tessuto sociale alla base, là dove conta ancora la conversazione con il parroco o la suora, là dove di bocca in bocca si crea “senso comune”. E questo in due referendum che riguardano il vivere comune, lo stare insieme nella casa-Italia, può produrre effetti indesiderati per la coalizione al potere. Ad essere influenzate non devono essere masse enormi, basta anche una percentuale misurata, capace di fare pendere la bilancia da una parte o dall’altra.

Il nervosismo di Meloni, come spesso le accade, si è rivelato a fine maggio nella frase da segretaria di sezione, in cui rimbrottava il presidente della Cei cardinal Zuppi, moderatamente critico sulle modalità con cui si è arrivati al premierato: “Non mi sembra che lo stato vaticano sia una repubblica parlamentare”.

Pochi giorni dopo, in un evento promosso dalla Link University di Roma sul tema “Chiesa e democrazia”, Zuppi ha risposto con eleganza che la Costituzione può essere certamente cambiata, lo prevede la Costituzione stessa, ma è bene che “la lettera modificata sia scritta con lo stesso inchiostro di allora”, cioè nello spirito dei padri costituenti. Il cardinale continuava delineando il pericolo di costruire una democrazia unicamente “procedurale”, senza una reale attenzione ai temi della vita, del lavoro, della sanità, dell’istruzione.

Dopo il presidente della Cei, il monsignor Mario Toso – già segretario del Consiglio pontificio Giustizia e Pace e autore del libro Chiesa e democrazia che dava il titolo all’incontro – ha lanciato un’altra frecciata: “I politici non hanno nulla da temere dai vescovi, semmai devono temere i cattolici che non sanno stare in parlamento!”. Con questa tendenza di fondo della gerarchia cattolica il governo dovrà fare i conti il giorno del referendum costituzionale.

Più ancora da parte della Chiesa la coalizione Meloni ha da temere nel referendum sull’autonomia differenziata. La voce dei parroci qui conta. E anche quella dei vescovi. Non è passato inosservato a palazzo Chigi che pochi giorni fa, ai dibattiti di Repubblica a Bologna, il cardinale Zuppi ha dichiarato testualmente che in seno alla Cei “tutti i vescovi hanno espresso la loro contrarietà al discorso dell’autonomia differenziata”. Parole che pesano. Usate da chi le misura con il bilancino. Zuppi non ha parlato di preoccupazioni o di dubbi, ha usato una parola netta: “Contrarietà”. Aggiungendo che il monito dei vescovi voleva dire “ricordatevi che la solidarietà è fondamentale”. D’altronde, approvata la legge, il segretario di Stato vaticano, cardinale Parolin, ha chiosato diplomaticamente: “L’autonomia differenziata sia attuata in maniera tale da non creare ulteriori squilibri, ulteriori differenziazioni e sperequazioni tra una parte e l’altra dell’Italia”. Insomma, si capisce da che parte tira il vento.

Un dato su cui riflettere è che mentre in altri paesi (Polonia e Ungheria per esempio) la destra nazionalista e populista ha varato leggi di sostegno ai ceti meno abbienti, il governo destra-destra italiano vara una legge che colpisce frontalmente almeno metà Italia. L’Avvenire parte con un editoriale dedicato all’ultimo rapporto Caritas, da cui risulta che la povertà è in aumento e che esigenze primarie di consumo, di salute fisica e psicologica, di istruzione e di cura sociale non riescono più ad essere soddisfatte da una massa crescente di persone, che non se lo possono permettere. Significa, tanto per dare una cifra, che “un bambino su sette la sera non ha abbastanza da mangiare, crescerà gracile e quado si ammalerà i genitori non avranno la possibilità di portarlo da uno specialista”. Che l’occhiello dell’editoriale indichi le “vere emergenze”, naturalmente, non è un caso.

Più direttamente un’intervista all’economista Riccardo Spirito mette in luce sul giornale dei vescovi che con la legge appena votata si può già partire regolamentando molte materie a prescindere dai Lep. E la cosa più grave, viene sottolineato, è che nella legge “non c’è alcuna traccia” del fondo fiscale perequativo per le regioni meno ricche. Il che significa “fotografare i divari di oggi”. Non è che l’inizio, la battaglia sarà accesa.

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