Come insegnante mi sono trovata più volte di fronte alla gentile richiesta di usare un nome differente da quello indicato sul registro di classe, di rivolgermi a uno studente al maschile e non al femminile o viceversa. Ho sempre acconsentito, non solo per una questione di rispetto per tutte le identità e i corpi, ma principalmente perché sono convinta che chi trascorre sei, sette, otto ore al giorno tra i banchi deve stare bene, sentirsi al sicuro.

La richiesta informale a ogni singolo docente, però, ha diverse complicazioni. Prima di tutto l’adolescente trans o non-binary può trovarsi di fronte a un insegnante che non accoglie questa sua necessità. Purtroppo, infatti, per chi lavora a stretto contatto con gli studenti e le studentesse non sono obbligatori momenti di formazione sull’identità di genere, l’orientamento sessuale o l’educazione sessuo-affettiva. Di conseguenza, tutto quel che ruota intorno a questi temi è lasciato alla sensibilità del singolo, che potrebbe tanto partecipare alle formazioni gratuite di associazioni Lgbtqia+ sul territorio quanto avere il libro di Vannacci sul comodino.

Anche se tutti gli insegnanti volessero rispettare le esigenze della persona che hanno di fronte, però, comunque quest’ultima sarebbe costretta a fare coming-out decine di volte, con ogni docente, supplente, tecnico di laboratorio e con chiunque partecipi alla quotidianità educativa. Ci sono studenti che ne parlano tranquillamente con qualsiasi adulto e anche con i compagni, altri invece preferiscono avere un momento per dialogare in privato con la figura adulta e qui ho la sensazione che li stiamo costringendo ad aprirsi anche lì dove non c’è un legame confidenziale o una conoscenza approfondita che gli permetta di farlo con spontaneità.

Superato lo scoglio del coming-out, i pronomi e/o il nome corretto hanno spesso un impatto solo su alcuni aspetti della vita scolastica, prevalentemente quello orale… durante le lezioni, per capirci. Per il resto, purtroppo, anche i docenti più inclusivi sono obbligati a utilizzare il nome anagrafico su relazioni, documenti, verbali, verifiche. C’è un unico strumento che le scuole hanno a disposizione per garantire il diritto delle persone trans a essere se stesse: la carriera alias. Quando dico “hanno a disposizione” è importante chiarire che non c’è una normativa diretta, ma si tratta di una pratica che le scuole possono regolamentare seguendo le linee della giurisprudenza di riferimento (ad esempio la risoluzione del Parlamento Europeo del 28 settembre 2011, le direttive del Miur sui bisogni educativi speciali o, banalmente, l’articolo 3 della Costituzione).

Di cosa si tratta? La carriera alias è un accordo di riservatezza reversibile tra scuola, student* trans e chi esercita la responsabilità genitoriale (nel caso di studenti minorenni), tramite il quale la persona trans – o che si sta interrogando sulla propria identità di genere – può chiedere di essere riconosciuta e denominata con un genere e/o un nome alternativi rispetto a quelli registrati all’anagrafe. Tale procedura può essere vincolata alla certificazione di un percorso psicologico concluso o in corso. La modifica del nome anagrafico con quello di elezione avviene sul registro elettronico (la maggior parte dei registri contiene già l’opzione “alias”), sull’indirizzo e-mail, negli elenchi e in tutti i documenti interni alla scuola privi di valore ufficiale, quindi non aventi valore legale.

A. mi ha raccontato: “mentre i miei compagni dovevano preoccuparsi solo di seguire la lezione, io entravo tutti i giorni con il terrore che i professori potessero fare l’appello o chiamarmi. Spesso mi fingevo assente pur di non rispondere a quel nome. Un paio di volte mi è capitato di ritrovarmi in lacrime a fine lezione, davanti al professore, cercando di spiegargli che sono transgender e che avrei voluto mi chiamasse in un altro modo. […] Se non mi avessero attivato la carriera alias in tempo non avrei fatto gli esami”.

Proprio in questi giorni, con gli esami di maturità in corso, soprattutto con l’inizio degli orali, gli studenti trans o non-binary che non hanno accesso alla carriera alias dovranno esordire chiedendo a commissari esterni mai visti prima di usare i pronomi corretti o, ancor peggio, opteranno per sopportare in silenzio il continuo misgendering. Se da un lato il diploma di maturità è un documento con valore legale e quindi dovrà effettivamente riportare la dicitura anagrafica, dall’altro è nostro compito prenderci cura – nel senso educativo del termine che unisce pratiche, riflessioni ed esistenze diverse – della permanenza a scuola di tutti gli studenti e le studentesse fino all’ultimo giorno, fino all’esame di maturità.

Secondo quanto riportato da Agedo il 18 giugno, sono 364 le scuole italiane di secondo grado che al momento prevedono la carriera alias. Poche, se consideriamo che tra il 2018 e il 2021 le richieste di accesso a percorsi di affermazione di genere sono triplicate rispetto al passato; pur non avendo numeri precisi a disposizione, come per ogni fenomeno, si può supporre che ci sia una percentuale sommersa nella generazione Z, composta da coloro che non si rivolgono a centri di assistenza, non seguono una terapia farmacologica né tantomeno si sottopongono a interventi chirurgici, ma che ugualmente fanno parte della comunità trans e potrebbero beneficiare dell’identità alias.

Una regolamentazione della carriera alias a livello statale non è sicuramente tra le priorità di questo governo, come non lo è stata neppure dei precedenti. Eppure, come centinaia di altri micro e macro-problemi (edilizia, materiali, burocrazia, concorsi, formazione, ecc.), chi a scuola entra tutti i giorni con competenza e passione sente su di sé una responsabilità immensa nei confronti dei ragazzi e del loro benessere. Il tasso di abbandono scolastico tra gli adolescenti trans è altissimo; non sto dicendo che la carriera alias andrebbe ad agire automaticamente anche sugli episodi di bullismo o sulla formazione del personale, ma sarebbe un chiaro e importante segnale per dire che la scuola è aperta a tuttə.

Mi vien da ridere se penso che una classe politica impregnata di ideali machisti come l’onore, il militarismo e l’eroismo poi abbia paura di un sedicenne con la spilletta arcobaleno sullo zaino. Il mondo al contrario, direbbe qualcuno.

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