“Ammetto che quando fai un film su un uomo che pulisce i cessi pubblici a Tokyo non ti aspetti che diventi un blockbuster”. Chi segue e conosce Wim Wenders da quasi quarant’anni, sa che il cinefilo di Dusseldorf, quello che con Peter Handke negli anni settanta rendeva di complicata lettura anche l’inquadratura più semplice, non ha mai mostrato sincera sorpresa di fronte ad alcunché.
La 78enne enigmatica sfinge della Neuer Deutsche Film invece si è per qualche istante sciolta a Bologna, tra gli stucchi dell’hotel Baglioni, mentre inizia la 37esima edizione del Cinema Ritrovato. Il regista tedesco interpreta la parte dell’esteta estasiato davanti allo schermo. Sta sulle punte di una manciata di epocali film restaurati da presentare (“avrei presentato tutti i film del catalogo”) e quando sfiora l’epifania impossibile del suo Perfect Days, plauso della critica unita e soprattutto 30 milioni di dollari d’incassi nel mondo, sembra esporsi come mai fatto nella sua lunga (incostante) carriera. “Nessuno è stato più sorpreso di me del successo che ha avuto. È stato un lavoro appassionante, fatto con amore. Sono affezionato all’attore protagonista, Koji Yakusho. Sono legato profondamente a Tokyo. All’inizio speravo che potesse piacere anche a qualcun’ altro oltre a me. Poi, davvero, mi sono meravigliato dei numeri che ha fatto anche solo in Italia”.
Infatti, nel periodo di maggiori incassi della stagione, ovvero a gennaio 2024, Perfect Days in Italia ha incassato sui sei milioni di euro, ed è risultato primo al box office per almeno una settimana, cosa mai successa nemmeno con i titoli più seguiti e amati della sua filmografia come Il cielo sopra Berlino o Paris, Texas. E a proposito di quest’ultimo titolo, la cui proiezione in Piazza Maggiore (il famoso “schermo all’aperto più grande del mondo”) rischia di saltare per pioggia ma che verrà distribuito da CG Enterteinment e Cineteca di Bologna nelle sale italiane il prossimo autunno in versione restaurata, Wenders rievoca l’incredibile alchimia tra regia, sceneggiatura di Sam Shepard, gli attori e il direttore della fotografia Robby Muller. “L’unico che poteva mandare tutto il set in malora ero io. Oggi sono orgoglioso di non averlo fatto”, spiega ancora con una piccola increspatura giocosa dell’anima.
Per Wenders, del resto, la presenza al Cinema Ritrovato (“sono dispiaciuto di non esserci venuto per 36 anni”) è un tuffo nel passato da critico e spettatore, con introduzione e spasimi per Ozu, Ford e Mann. “Il passo del diavolo lo vidi in 35 mm 30 anni fa. Mann, senza saperlo, è stato il mio insegnante di cinema. Fu su di lui la prima retrospettiva vista alla Cinemateque. Da lui ho imparato il linguaggio cinematografico e i movimenti di macchina. Era un grande formalista”.
Sul fatto che per Wenders Sentieri selvaggi fosse ispiratore, almeno il libro firmato da Alan Le May da cui John Ford trasse il film, de Lo stato delle cose si sapeva (“l’ultima volta l’ho visto a Tokyo con John Wayne che parlava giapponese”); mentre per Ozu sfiora la divinazione: “L’anno scorso qui a Bologna vidi due film restaurati suoi che non avevo mai visto e avevo le lacrime agli occhi. Invece se non sapete che film è Sono nato, ma… non potrete rivolgermi la parola fino a quando non lo vedrete”. Infine, a proposito di parole che si rivolgono anche con chi c’è stato attrito ed è pure volato qualche piatto, Wenders conferma che con Francis Ford Coppola, ospite una manciata di anni fa al Cinema Ritrovato ancora in giro col cappello per i dollari con cui costruire Megalopolis, seduto proprio sulla stessa sedia in cui è il regista tedesco, dopo la lite per Hammett (Coppola lo produsse malino) è tutto sereno da un po’: “Ho visto Megalopolis a Cannes in una replica alle otto del mattino. Sono stato felicissimo di vederlo. Ho parlato con Francis per un’ora. È un film incredibile e, come tutti i grandissimi film, ha qualche difetto. Del resto solo i film mediocri non ne hanno. Sono felice che Francis abbia avuto il coraggio di farlo. Il coraggio a Francis non è mai mancato”.