Una regionale che avrebbe di fatto perpetuato il sistema delle proroghe automatiche delle concessioni balneari. La proroga del termine per la presentazione delle domande di rinnovo delle concessioni balneari della Regione Sicilia è, quindi per la Corte Costituzionale, illegittima. La questione era stata posta dal governo alla Consulta, che rimproverava al legislatore siciliano di aver ecceduto dalle competenze violando la direttiva Bolkestein. Un verdetto che arriva in mancanza di una normativa esaustiva, con il governo Meloni che fa melina e con pronunce di Tribunali amministrativi di segno opposto. Come per esempio quella dello scorso 7 maggio con cui il Tar di Bari ha dichiarato illegittima la procedura di gara per 21 stabilimenti a Monopoli, stabilendo la proroga delle concessioni al 2033. Scelta che contrasta con la pronuncia dell’organo amministrativo superiore, appunto il Consiglio di Stato.

Oggi invece a esprimersi è la Consulta che proprio sulla legge regionale di proroga decide in segno contrario e forse definitivo. Per i giudici il differimento al 30 aprile 2023 del termine, secondo il governo, “corrobora la proroga delle concessioni demaniali marittime fino al 31 dicembre 2033“, nonostante la legge statale avesse abrogato nel 2022 la proroga fino a quella data. La Corte ha quindi rilevato che rinnovare anche la possibilità di presentazione delle domande “finisce con l’incidere sul regime di durata dei rapporti in corso”, perpetuandone il mantenimento e quindi rafforzando “la barriera in entrata per nuovi operatori economici”. Il caso Sicilia era scoppiato alla fine del 2021 con la Regione Siciliana decisa a fare da sola.

Nel ricorso del governo si lamentava la violazione delle previsioni dell’art. 12 della direttiva Bolkestein n. 2006/123/CE, nota anche come “direttiva servizi”, che impone agli Stati membri dell’Unione europea, con efficacia diretta, di mettere a gara le concessioni demaniali in scadenza, vietando il ricorso alle proroghe automatiche ex lege. Il differimento al 30 aprile 2023 del termine di cui si tratta, secondo il Governo, “corrobora la proroga delle concessioni demaniali marittime fino al 31 dicembre 2033”, pur avendo la legge statale n. 118 del 2022 abrogato, per incompatibilità con l’ordinamento unionale, i commi 682 e 683 dell’art. 1 della legge n. 145 del 2018, che prolungavano la proroga fino a quella data, e nonostante le sentenze dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 17 e n. 18 del 2021, nonché quella della Corte di giustizia dell’Unione europea 20 marzo 2023, in causa C-348/22, Autorità Garante della concorrenza e del mercato, che ha ribadito la contrarietà al diritto UE dei rinnovi automatici delle concessioni aventi ad oggetto l’occupazione del demanio marittimo italiano.

In motivazione, la Corte ha sottolineato che le norme siciliane impugnate perpetuano, limitatamente al territorio della Regione Siciliana, il sistema delle proroghe automatiche delle concessioni, più volte giudicato illegittimo dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea e oggetto di disapplicazione da parte della giurisprudenza amministrativa. In tal modo, ha precisato la Corte, le norme in questione si pongono in contrasto con l’art. 12 della direttiva Bolkestein, e quindi con l’art. 117, primo comma, della Costituzione.

Nel sottolineare che il differimento dei termini previsto nelle norme impugnate dal Governo non si riferisce alla vera e propria proroga delle concessioni demaniali fino al 2033, che trova origine nella legge regionale n. 24 del 2019, ma solo alla presentazione delle domande di proroga, la Corte ha rilevato, in linea con le censure governative, che la rinnovazione anche della possibilità di presentazione delle domande “finisce con l’incidere sul regime di durata dei rapporti in corso, perpetuandone il mantenimento e quindi rafforza, in contrasto con i principi del diritto UE sulla concorrenza, la barriera in entrata per nuovi operatori economici potenzialmente interessati alla utilizzazione, a fini imprenditoriali, delle aree del demanio marittimo”.

Un altro caso è quello della Calabria. Come ormai noto, tutto si gioca intorno alla nozione di scarsità del bene, in questo caso le spiagge da dare in concessione. Se sono tali, le norme europee, prevedono la messa a gara. Diversamente non è necessario e per questo è partita l’operazione di mappatura avviata dal governo, anche per guadagnare tempo. La prima ricognizione è stata considerata non attendibile da Bruxelles poiché effettuata con criteri estremamente arbitrari. Ora è in corso una seconda ricognizione.

In molti casi i canoni annuali sono irrisori. Secondo un rapporto della Corte dei conti, lo Stato incassa ogni anno da oltre 12mila concessioni, appena 92 milioni di euro. Una media di circa 7.60o euro a stabilimento, a fronte di fatturati medi stimati in 260mila euro. Lo scorso dicembre il ministero delle Infrastrutture, guidato da Matteo Salvini, ha deciso di ridurre ulteriormente i canoni del 4,5%.

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