di Eugenio Lanza

Sin dalla fanciullezza, le due grandi passioni che hanno dato colore alla mia esistenza sono state il calcio e la politica, come per tanti altri italiani. E negli anni, perciò, sono spesso stato rapito dal fascino variopinto dei grandi tornei internazionali. Rassegne pacifiche ed avvincenti che hanno permesso a popoli di Paesi lontani di incontrarsi sul rettangolo verde, ma soprattutto a popoli di Paesi vicini di scontrarsi col pallone invece che col mitra.

Intendiamoci, il calcio non ha mai fermato una guerra, né mai lo farà. Sarebbe ingeneroso chiedere alla sfera di cuoio di adempiere a un tale dovere. Tuttavia, il gioco più bello del mondo in un’impresa è riuscito: domare la nostra irrinunciabile pulsione di morte. Il dionisiaco, un tempo espresso solo con la violenza pura, ora ha trovato spazio e dignità all’interno dello sport. Ed è in quest’ottica che i mondiali e gli europei assumono un’importanza popolare inestimabile.

La dimensione metastorica in cui le nazionali si sfidano nei novanta minuti è la stessa in cui le nazioni si affrontavano in guerre atroci ed interminabili. È per questo che Italia-Germania, Francia-Inghilterra, Spagna-Portogallo o Brasile-Argentina non sono mai solo partite di pallone, ma vere e proprie ordalie collettive. E a lungo lo sono state anche per me.

Ma quest’anno, ad Euro 2024, è diverso. La misura è colma e la rabbia per ciò che avviene nel mio Paese reale è troppo forte per perdermi in questa onirica epopea. Non riesco a sostenere i ragazzi di Spalletti.

Io mi chiedo infatti, in tempi come questi, come si faccia tifare la nazionale di un Paese che si divide in due. Un paese che, proprio mentre è guidato da una destra di sedicenti patrioti, si spezza geograficamente a metà. Per volere dei più ricchi e a detrimento dei più poveri, ça va sans dire. Un Paese che si prepara a una riforma della giustizia dannosa, che indebolisce le capacità della magistratura, e che in nome di un garantismo un po’ classista protegge i colletti bianchi dal rischio della galera. Proprio quel luogo in cui qualcuno vorrebbe veder marcire le persone.

Un Paese vittima di una povertà dilagante e ostaggio della criminalità organizzata. Un Paese la cui classe politica considera però “metadone di Stato” i diritti sociali, e perciò li abolisce. Riportando così migliaia di cittadini nella miseria, dopo averli temporaneamente sottratti alla disperazione e perciò alle grinfie delle mafie. Un Paese in cui l’esecutivo, invece di cercare strumenti razionali per rendere più stabili i governi, vagheggia il presidenzialismo senza il coraggio di dichiararsi. E così si inventa una riforma costituzionale assurda, che rischia di umiliare il ruolo del Parlamento senza garantire nulla all’elettorato.

Un Paese che, come Gaber, non rinnego. Ma di cui oggi quasi mi vergogno.

E allora, pur essendo ben consapevole che oltre le Alpi non vi sia l’Eden, la prima nazionale che desidero fuori da questa competizione è quella azzurra.

Nel 2021 ero ancora convinto si potesse tifare l’Italia malgrado tutto quanto, probabilmente sulla scia dell’ottimismo che mi avevano regalato i tre anni precedenti, gli unici in cui mi sono sentito fiero di un presidente del Consiglio. Soffrii ed esultai per la nazionale di Mancini, sebbene quell’esperienza politica fosse stata da poco interrotta in maniera folle e detestabile, proprio quando si trattava di dover raccogliere e redistribuire ciò che si era seminato. E perciò mi commossi comunque dopo il trionfo di Wembley.

Oggi, invece, sono attanagliato dalla paura che i mali di questa penisola siano endemici, e che perciò non possano essere debellati.

Adesso comprendo il pensiero che Massimo Fini espresse sugli azzurri tre anni fa: la sua mitica “gufata”. Quella che allora derubricavo a sterile provocazione, forse perché il tifoso prevaleva sul cittadino, è invece una riflessione tornata attualissima, e che ora condivido profondamente.

Povera Patria, non cambierà. Forse cambierà… E allora tornerò a tifarla.

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