Non solo povertà e diseguaglianza: le privatizzazioni, lo smantellamento del welfare, i tagli ai servizi hanno spinto le persone a rivolgersi a fondi pensioni private e polizze sanitarie. E hanno così favorito lo spostamento di ingenti risorse verso fondi finanziari, che li hanno poi utilizzati “per diventare pivot decisivi dell’intero sistema economico mondiale, approfittando delle debolezze della politica”. A denunciare un fenomeno tanto esteso e grave quanto sottaciuto è Alessandro Volpi nel libro I padroni del mondo. Come i fondi finanziari stanno distruggendo il mercato e la democrazia (Laterza). Un volume tanto analitico quanto sferzante in cui lo storico racconta come privatizzazione e finanziarizzazione si sono saldate su più piani, mentre la finanza si sostituiva all’economia reale. Così, fondi come Vanguard, Black Rock, State Street e pochi altri, grazie alla loro straordinaria liquidità, hanno celermente acquisito il controllo delle principali società del Pianeta, a cominciare da Apple, Microsoft e da gran parte delle prime cinquanta realtà quota allo S&P, il più importante listino del mondo. Non basta: lo stesso cartello controlla le agenzie di rating, parte della stampa economica, le principali banche, le assicurazioni, la farmaceutica, l’industria militare, la filiera alimentare e quelle delle energie, rinnovabili comprese. E ancora: piattaforme turistiche, alberghi, airbnb, gioco d’azzardo.

Se due fondi gestiscono un quinto del Pil mondiale

I numeri sono impressionanti: nel 2022 i primi dieci fondi hanno registrato attivi per 44.000 miliardi di dollari e due soli tra loro, Black Rock e Vanguard, ne gestiscono quasi la metà, ovvero un valore pari a un quinto dell’interno Pil mondiale, mentre i dieci fondi detengono tra il 30 e il 40% delle prime 500 società mondiali.

I fondi sono penetrati anche in Italia: nelle società pubbliche, comprese quelle che si occupano delle reti e delle sovrastrutture vitali; nelle multiutility, ovvero le società di servizi pubblici quotate in borsa – che si occupano di servizi idrici, traporti, energia, rifiuti – cedute dalle amministrazioni locali a società esterne, caratterizzate dalla presenza di capitale privato, in nome della necessità di reperire capitali meno costosi e della presunta efficienza dei manager privati. Ma per gli utenti non si è avuta alcuna riduzione tariffaria.

“Il paradosso, poi”, spiega Volpi “è che i principali azionisti di tali società, i grandi fondi finanziari, stanno comprando le principali infrastrutture italiane, dalla rete, alle autostrade, ai rigassificatori, ricevendo lussuosi dividendo dalle principali banche, assicurazioni, società energetiche di cui sono azionisti, senza pagare imposte perché hanno sede fiscale all’estero”.

Prezzi, non è inflazione ma speculazione

E mentre le banche italiane, nel Paese dei salari poveri e della crescita all’1%, hanno registrato nel 2023 utili per 43 miliardi di euro, +70% sull’anno precedente, dall’altro lato aumentano i costi per i cittadini. In particolare, la nuova dipendenza dal gas naturale liquefatto in nome della sicurezza energetica accresce la sudditanza dai fondi finanziari e dai loro prezzi, “in barba alle bollette”. I prezzi, infatti sono stabiliti dagli speculatori.

I fondi ovviamente sono presenti anche nel mondo degli idrocarburi: sono in Exxon Mobil e Chevron, in Shell, determinando anche l’andamento dei prezzi. Lo stesso avviene per i prodotti agricoli, la cui impennata nei costi, nota l’autore, “non dipende da fantomatiche crisi alimentari, come quella legata alla guerra ucraina, ma al fatto che i prezzi sono decisi dalle grandi Borse merci del Paese, i cui principali azionisti sono sempre i fondi finanziari globali”, che hanno in mano anche il complesso del settore alimentare.

A favorire i fondi è, poi, anche l’indebitamento degli Stati, perché per pagare gli interessi sul debito (15-17 % del pil globale) diventano indispensabili i fondi privati, che stanno sempre più diventando gli arbitri del costo del debito dei vari stati.

Separare mercato e capitalismo, tornare alla dimensione pubblica

In questo quadro, anche l’ambiente ci rimette, perché la finanza si concentra su orizzonti temporali molto brevi, rendendo il capitalismo insensibile alle questioni climatiche, che hanno tempi lunghi. Al tempo stesso, secondo l’autore, le misure green stabilite dall’Europa dovrebbero tenere conto di queste realtà. Ad esempio, la direttiva casa green, certamente encomiabile, oltre al rischio di svalutazione degli immobili richiede, nota Volpi, “un impegno finanziario che non può essere rovesciato sui singoli proprietari. Infatti, gli unici soggetti dotati di liquidità per la transizione sono i grandi fondi, e così la transizione energetica rischia di diventare l’ennesima tappa della finanziarizzazione”.

Di fronte a tutto ciò, denuncia l’autore, è sconfortante come lo Stato azionista non sia riuscito a impostare politiche industriali ma si sia comportato, denuncia l’autore, come un socio finanziario. Eppure, è giunta l’ora di “provare a restituire alla dimensione pubblica la sua natura di agenzia democratica”. Anzitutto, separando mercato e capitalismo, perché in quest’ultimo non c’è giustizia né centralità del lavoro ma solo la ricerca costante del profitto.

Sistema fiscale progressivo e tassazione delle rendite finanziarie

Una delle prime battaglie da fare è certamente quella perché i servizi pubblici non vengano privatizzati e quotati in borsa. “Ogni volta che dal pubblico ci spostiamo nel privato perdiamo di vista l’uguaglianza”. Inoltre, nota Volpi, bisognerebbe avere il coraggio di invocare un sistema fiscale progressivo, con una adeguata tassazione della rendita finanziaria.

In conclusione, spiega lo storico, servirebbero strumenti di regolazione nazionali più forti ed efficaci degli attuali antitrust, “molto attenti magari alla penetrazione cinese e non al fatto che i grandi gruppi, anche bancari, sono ormai partecipati dai grandi fondi”. Tutto questo va fatto anche per evitare un rischio possibile se non probabile a causa dei valori gonfiati di questi fondi: quello di una possibile “bolla” finanziaria, ovvero di una crisi come quella del ’29. Una crisi dovuta al fatto che i veri produttori, quelli di acciaio, terre rare, microchip, lontani dalla finanza, e che sono principalmente in Cina e del sud del mondo, potrebbero decidere di non utilizzare più il dollaro come moneta di riferimento, cominciando a costruire una loro finanza autonoma rispetto al mondo occidentale. Una mossa che, potenzialmente, potrebbe dare inizio a una vera catastrofe.

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