Politiche culturali che riconoscono il valore del territorio e il contributo della comunità. Con un solo rischio: l'overbooking
Si differenziano radicalmente dai tradizionali festival culturali di danza, cinema o teatro perché non hanno una direzione artistica calata dall’alto, ma soprattutto perché coinvolgono il territorio, talvolta rigenerando luoghi e contesti urbani magari degradati dal punto di vista fisico e sociale. Inoltre, utilizzano risorse locali che vengono distribuite in maniera più equa e uniforme. Sono i cosiddetti “festival diffusi”, ormai numerosissimi in Italia. Ne parlano Andrea Minetto e Silvia Tarassi, rispettivamente manager culturale e consulente nell’ambito della progettazione e delle politiche culturali, nel libro I festival diffusi. Un nuovo formato organizzativo per le politiche culturali (Franco Angeli).
Cambia la struttura, dunque, ma anche il pubblico. “Normalmente i classici festival coinvolgono un specifico target, e si svolgono in teatri, auditorium o in luoghi tendenzialmente attrezzati”, spiega Andrea Minetto. “Al contrario, i festival diffusi si svolgono in luoghi completamente differenti, atipici, nelle piazze, nei parchi, nei musei, nelle stazioni, nelle carceri, negli ospedali. Questi eventi sono strettamente organizzati e costruiti con il territorio, con la città e il luogo che li ospitano”. Inoltre, coinvolgono lavoratori e comunità locali. “Tutto viene fatto con molta autenticità e cura”, nota a sua volta Silvia Tarassi. “E c’è di più: in tempi di scarsità cronica di finanziamenti alla cultura, i festival diffusi rappresentano un modello sostenibile anche economicamente: non c’è, in genere, un unico ente locale che finanzia un progetto, ma diversi soggetti che si mettono insieme, unendo le competenze. Ci sono, ovviamente, anche degli sponsor, ma la relazione pubblico-privato è più sana”.
Qualche esempio? “Penso al festival Green Week di Milano”, continua Minetto, “settimana diffusa che voluta da tantissimi organizzatori, associazioni, comitati di cittadini ed enti. O al festival Roma Diffusa, che si svolge a Trastevere e in altri quartieri, dove sono coinvolti i negozi e chi vive sul territorio; o a Piano City Milano, costruita da sempre insieme a associazioni, oratori, comitati di quartiere e soggetti locali di ogni tipo. Ovviamente è più facile che si creino questi eventi dove le relazioni sono più ricche”.
Rispetto a questo nuovo modello, come si posiziona l’Italia? “La costruzione di eventi dal basso è senz’altro qualcosa di tipico dei Paesi nordici, ricordo ad esempio che il primo festival diffuso di pianoforti è nato a Berlino nelle case delle persone”, risponde Minetto, “ma per come è stato formalizzato e applicato alle politiche culturali delle città siamo senz’altro unici”.
Solo aspetti positivi, dunque, e nessuna criticità? “Paradossalmente”, conclude Silvia Tarassi, “proprio il fatto di essere un modello flessibile, partecipativo e inclusivo ha generato talvolta un sovraffollamento di eventi. Inoltre, se pure questi festival hanno cambiato anche in parte il volto di alcune città note solo per altri aspetti, potrebbero generare overtourism ma anche fenomeni speculativi rispetto agli spazi utilizzati, che aumentano di prezzo. Si tratta di esternalità negative di cui noi abbiamo parlato nel libro, ma anche di sfide per questo modello di festival culturale, affinché – facendo propri i suoi limiti – continui a diffondersi, mantenendo la sua autenticità, inclusività, sostenibilità”.