“La festa di benvenuto”: duri pestaggi, spesso con spranghe di silicone o di metallo e cavi elettrici. “Lo pneumatico”: il corpo del detenuto viene contorto fino a farlo entrare in uno pneumatico da camion, poi via ai pestaggi). “L’impiccato”: il detenuto viene tenuto appeso per i polsi per parecchie ore, coi piedi nel vuoto, e picchiato ripetutamente). “Il pollo allo spiedo”: il prigioniero è tenuto sospeso a testa in giù, legato polsi e ginocchia a una sbarra. “Il tappeto volante”: la vittima è legata a una struttura pieghevole, simile a un tavolo da ping-pong, una delle cui metà viene pressata contro l’altra. “La sedia tedesca” (chiamata così perché inventata dai nazisti): le braccia vengono bloccate sotto la sedia, che poi viene raddrizzata in modo che il corpo del prigioniero si curvi sempre di più.

Queste sono solo alcune delle tecniche di tortura utilizzate in Siria negli anni Novanta e tramandate da Assad padre ad Assad figlio fino ai tempi nostri.

Nello scantinato di una stazione di polizia delle Filippine, nel 2014, è stata trovata una “ruota della tortura”, un’imitazione tragicamente fedele della nota “ruota della fortuna”. A seconda di dove si fermasse la lancetta, il detenuto poteva essere sottoposto a “30 secondi nella posizione del pipistrello” (ossia tenuto appeso a testa in giù per mezzo minuto) o a “20 secondi di Manny Pacquiao” (ossia a pugni in faccia, in onore del più famoso pugile filippino) o ad altri metodi di tortura efferati.

Universalmente vietata ma praticata in gran parte degli Stati del mondo, nel XXI secolo la tortura si presenta per molti versi con le stesse modalità dei supplizi medievali. Il torturatore usa in primo luogo il proprio corpo (per picchiare, strangolare, stuprare come nel caso delle attiviste iraniane del movimento “Donna Vita Libertà”), poi ciò che ha a portata di mano (attrezzi di falegnameria, bastoni, alimenti urticanti, stracci imbevuti di sostanze chimiche, rudimentali congegni elettrici, materiali arroventati ecc.) o usa strumenti per infliggere volutamente il massimo della sofferenza possibile, come l’armamentario del dentista.

L’obiettivo di questa perversione, in cui la creatività è messa al servizio del male, non è uccidere il corpo ma uccidere la mente; annichilire, tenere sotto controllo e in perenne soggezione una persona, distruggerne l’identità, punirla per ciò che è o per ciò che si sospetta possa essere e, infine, farla ritornare in pubblico per mostrare la tremenda forza della tortura.

Ma accanto a quella prevalentemente fisica, si sta affermando una forma di tortura più sofisticata, che non lascia ferite o segni visibili sul corpo ma che devasta la mente, fino a farla impazzire e a rendere non credibile la vittima o a impedirle di raccontare, magari per la vergogna, ciò che le è accaduto. Ecco alcuni dei numerosi metodi praticati nel centro di detenzione statunitense di Guantánamo Bay (peraltro alcuni di questi erano già stati usati dai servizi inglesi nelle prigioni dell’Irlanda del Nord nella seconda metà del secolo scorso): esporre un prigioniero a luci accecanti, a musica assordante o a temperature gelide o torride, tenerlo incappucciato per mesi, isolarlo da ogni suono o rumore, costringerlo a rimanere seduto in posizioni scomode per giorni e giorni, negargli il cibo, non farlo dormire, minacciare di morte i suoi familiari, obbligarlo a rimanere nudo di fronte a estranei o ad assistere a spogliarelli di donne.

Il tutto, meticolosamente regolamentato da manuali, linee guida, avvocati (quelli che devono dimostrare, di fronte alla remota eventualità di un processo, che non si è trattato di tortura), medici (quelli che devono fermarla quando c’è il rischio che chi la sta subendo ne muoia) e psicologi.

Ciò che dev’essere chiaro è che, lungi dall’essere il prodotto di un’estemporanea perdita di controllo o della presenza di “mele marce” all’interno di un cesto che si autodefinisce sano, la tortura odierna è frutto di un programma curato con estrema meticolosità e, si potrebbe dire, con un approccio manageriale, in cui viene studiato ogni “punto debole del nemico” e curato ogni minimo dettaglio della conduzione degli interrogatori e del trattamento riservato a un prigioniero.

La tortura è, insomma, un sistema. Che a volte va fuori controllo, quando ad esempio si tortura inquadrati dalle telecamere a circuito chiuso delle prigioni o s’immagina che le persone sopravvissute saranno troppo terrorizzate per riprendere la parola e denunciare. Vedi Santa Maria Capua Vetere nel 2020 e Bolzaneto nel 2001. In Italia, con 11.000 giorni di ritardo rispetto a quanto ci richiedeva la relativa Convenzione delle Nazioni Unite, nell’estate del 2017 è stato introdotto nel codice penale il reato di tortura. C’è già chi è pronto ad abrogarlo. “Modificarlo”, si dice. Ma l’obiettivo è chiaro: fermare i processi d’appello in corso, azzerare le indagini avviate su oltre dieci casi di tortura nelle carceri del nostro paese.

La parola-chiave, l’architrave del sistema di violazione dei diritti umani, rischia di tornare di attualità anche in Italia. Quella parola è: impunità.

Ricordiamola oggi, e ricordiamone i rischi, a 48 ore dalla Giornata mondiale per le vittime della tortura.

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