Sono serviti 14 calci di rigore, una prestazione monumentale del portiere Aldair Quintana e tanta camomilla, ma alla fine l’Atlético Bucaramanga è finalmente salito per la prima, storica volta sul trono del calcio colombiano. Un titolo atteso da ben 75 anni, e arrivato dopo una doppia finale rocambolesca con l’Independiente di Santa Fe, non senza un brivido finale: dopo aver vinto per 1-0 nel fortino dell’Estadio Alfonso López, los Leopardos erano in vantaggio anche nella gara di ritorno al Campín, ma due reti dei Cardenales negli ultimi 5 minuti di gara hanno ristabilito l’equilibrio, trascinando la contesa direttamente ai calci di rigore. A un passo dallo psicodramma sportivo, però, a fare la differenza, è stato l’istinto di Aldair Quintana, reattivo nel neutralizzare l’ultimo e decisivo penalty di Julián Millán. L’allenatore venezuelano Rafael Dudamel, stratega dello scintillante Venezuela finalista al Mondiale U20 del 2017 e condottiero di una cavalcata memorabile iniziata con il suo arrivo lo scorso dicembre, era stato facile profeta. “Avere il miglior portiere del campionato mi fa dormire sonni tranquilli”, ha dichiarato. “I portieri vincenti, di statura internazionale, sono quelli che non fanno molte parate durante la partita, ma sono determinanti per la vittoria di un titolo”.
Vincere il titolo domestico, in effetti, era da sempre l’ossessione dell’Atlético Bucaramanga, l’unico club storico che ancora non ci era riuscito. Qualcuno, nella migliore tradizione del calcio latinoamericano, aveva indicato il paranormale come possibile fonte delle disgrazie del club, immaginando che i Leopardos fossero finiti ostaggio di un sortilegio, la cosiddetta “maledizione del gallo nero“. Tutto era nato da una storiella, cominciata a circolare alla fine degli anni 2000, dopo che un giocatore rimasto anonimo aveva confessato al giornalista Felipe Zerruk di aver assistito ad un rituale legato alla stregoneria. In sostanza, stando a questa versione, nella lontana Buenaventura era stato sacrificato un gallo nero, con il suo sangue che era stato spruzzato sulla divisa da gioco dell’Atlético Bucaramanga. Quella del gallo nero, però, non era né la prima, né l’unica maledizione di cui si crede sia stato vittima il club. Dal 1981, infatti, la formazione auriverde era già funestata dalla celebre “maledizione del leopardo“. L’origine è collegata ad una delle vicende più drammatiche della storia del calcio colombiano. L’11 ottobre di quell’anno, durante una sfida con lo Junior di Barranquilla, infatti, si verificò un evento tragico: dopo una decisione arbitrale parecchio contestata, che danneggiava l’Atlético Bucaramanga, una moltitudine di tifosi invase il terreno di gioco dell‘Alfonso López. L’immediato intervento dell’esercito, che sparò in aria con l’obiettivo di disperdere la folla, però, anziché riportare l’ordine, aumentò la confusione e generò il caos. Le conseguenze furono devastanti. La giornata si chiuse con un bollettino di guerra: 4 morti e 29 feriti. Secondo le credenze popolari, dopo quel tragico avvenimento – commemorato ogni anno nel Leopard Fan Day (che si celebra proprio ogni 11 di ottobre) – una tetra aura di morte avrebbe continuato ad aleggiare sullo stadio di Bucaramanga. E solo un qualcosa di altrettanto macabro, come la morte di un tifoso o di un personaggio storico dei Leopardos, avrebbe potuto liberare l’Atletico da questa sorta di incantesimo. Per questo, dopo la conquista del titolo da parte dei Bucaros, in molti hanno subito pensato a José Américo Montanini, il massimo cannoniere della storia auriverde, scomparso lo scorso novembre, un mese prima dell’arrivo di Dudamel in Colombia.
Coincidenze o meno, del resto, la storia dei Leopardos somiglia ad un vero e proprio dramma shakespeariano, condito con un pizzico di realismo magico. Un inno alla resilienza popolato da tragedie e maledizioni, ma anche ricco di delusioni cocenti – comprese tre retrocessioni – illusorie resurrezioni come la finalissima del 1997 persa malamente con l’América di Cali e altrettanti trionfi evaporati sul più bello. Come quando, nel 1960, il Bucaramanga arrivò ad un passo dal titolo tanto agognato, accarezzando quel Sacro Graal che poi avrebbe continuato ad inseguire per altri 64 anni. Per conquistarlo sarebbe servito battere l’Independiente di Santa Fe (manco a farlo apposta lo stesso avversario del 2024), avanti di una sola lunghezza, a tre giornate dalla fine. Nonostante la trasferta nella capitale, quasi tutti davano per scontata la vittoria dell’Atlético, ma al Campín andò in scena una disfatta dalle proporzioni bibliche: i Cardenales biancorossi si imposero con un rotondissimo 5-1, ponendo fine ai sogni di gloria auriverde. Su quanto accaduto quel giorno, però, circolano varie versioni, tutte molto fantasiose, ma proprio per questo assai credibili. Molti, ad esempio, attribuirono all’allenatore Juan “el Andarin” Barbieri, venezuelano come Dudamel, la mancanza di una rigida disciplina. Anche alcuni vizi presunti dell’allenatore finirono sul banco degli imputati: in giro, infatti, si vociferava che Barbieri amasse smodatamente giocare a carte e che lo facesse anche fino a tarda notte. Altri si spinsero anche oltre, ipotizzando addirittura il fatto che l’Andarin potesse aver scommesso contro la propria squadra, schierando una formazione improvvisata con l’intento di perdere. Intervistato dallo storico quotidiano El Tiempo, Eugenio Casali, pilastro difensivo di quella squadra, allontanò con forza le insinuazioni, derubricandole a semplici leggende metropolitane. “La verità è che il Santa Fe ha giocato molto bene e noi, invece, abbiamo fatto male, ma molto male”. A queste parole però non devono aver creduto alcuni tifosi ubriachi che, infuriati con Barbieri, si diressero verso l’Hotel Bucarica, dove alloggiava, per linciarlo. Ma non lo trovarono: un guasto al bus, infatti, aveva costretto la squadra a pernottare a San Gil, una località sulla strada per Bogotà. Venuto a sapere della spedizione punitiva, e immediatamente fuggito verso una destinazione sconosciuta, da quel giorno nessuno ha visto più l’Andarin in città.
Un’altra partita con l’Independiente di Santa Fè, invece, è passata alla storia per un episodio forse ancora più tragicomico e singolare. Era il 1966 e tutto nacque da un calcio di rigore fischiato per un presunto fallo di mano sullo 0-0. I giocatori dell’Atlético Bucaramanga professarono con convinzione la loro innocenza e iniziarono a protestare con vigore, ma il signor Barona (il nome del direttore di gara) fu irremovibile. Per tutta risposta, allora, l’allenatore dei Leopardos, Soto Vergara, ordinò alla squadra di occupare la porta con lo scopo di impedire fisicamente la battuta del calcio di rigore. Missione compiuta, tant’è che dopo un quarto d’ora di stallo, tra polemiche e tentativi di mediazione, il direttore di gara si vide costretto a sospendere la partita, quando mancava ancora quasi un’ora di gioco. Finita? Macché! A questo punto, infatti, entrarono in scena giocatori dell’Independiente, infuriati perché si sentivano defraudati di un calcio di rigore, e quindi della possibilità di passare in vantaggio e ottenere ragionevolmente la vittoria. Seguirono colloqui interminabili a cui parteciparono non solo i calciatori, ma anche gli allenatori e alcuni dirigenti di entrambi i club. Anche i tifosi accorsi allo stadio chiesero a gran voce la prosecuzione dell’incontro, impedendo all’arbitro di lasciare il terreno di gioco, ma non ci fu verso di far cambiare idea ai giocatori bumanguesi. Il clima, naturalmente, si fece sempre più incandescente. Non deve quindi stupire se alla fine Barona, constatata l’impossibilità di far riprendere la contesa, decise di sospenderla in maniera definitiva, emettendo il triplice fischio conclusivo dall’interno di un autoblindo della polizia, l’unico luogo nel quale si sentiva al sicuro. La Dimayor, il governo del calcio colombiano, assegnò poi la vittoria d’ufficio all’Independiente di Santa Fe. Tutto è filato liscio, invece, qualche giorno fa quando proprio i calci di rigore hanno consegnato all’Atletico Bucaramanga la tanto attesa stella del calcio colombiano, colmando un vuoto storico e spezzando per sempre incantesimi e maledizioni varie. Merito in gran parte di Rafael Dudamel, ex portiere del Venezuela, diventato profeta a Bucaramanga, con tanto di chiavi consegnate dal sindaco in persona. Per ironia della sorte, una città teatro nei mesi scorsi di violente proteste xenofobe contro i migranti venezuelani. Ma, alla fine, non è anche un po’ questa la magia del calcio?