Julian Assange, dopo cinque anni di reclusione, ha lasciato il carcere: ora riabbraccerà i suoi cari, poi, finalmente potrà tornare in Australia. Per riconquistare la libertà ha dovuto accettare il patteggiamento, suggerito anche dai suoi legali, e ha riconosciuto di essere entrato in possesso di documenti riservati, senza cedere sullo spionaggio e sul diritto a pubblicare qualsiasi notizia di pubblico interesse e di rilevanza sociale. Da qui la condanna a 62 mesi pari al tempo già trascorso dietro le sbarre.

Senza patteggiamento sarebbe ancora in galera, in condizioni pietose, costretto ad una sorta di tortura a rate, senza condanna, sempre in attesa.

Tra i primi commenti non sono mancati quelli di chi dopo averlo ignorato, diffamato, dileggiato, ora si avventura nella celebrazione della superiore civiltà degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. Sarà appena il caso di ricordare che Assange è finito in carcere per aver rivelato i dossier truccati al fine di provocare torture, guerre, invasioni, e incrementate il traffico delle armi. Quei governi hanno ingannato i loro popoli e tutti i popoli della terra e non risponderanno mai dei loro misfatti.

Assange rivelando quelle falsificazioni ha compiuto il suo dovere, anche dal punto di vista deontologico, perché ha reso pubbliche notizie di indubitabile rilevanza pubblica e sociale, come hanno riconosciuto meritoriamente le principali istituzioni del giornalismo internazionali e nazionali, tra queste la Federazione della stampa, l’Ordine dei giornalisti, l’associazione Articolo 21.

La condanna di Assange, simbolicamente e non solo, avrebbe rappresentato la condanna del giornalismo di inchiesta, la santificazione del regime dei segreti, la museruola a quanto resta del giornalismo di inchiesta, anche in Italia. La sua liberazione segna anche un punto a favore di quella parte della pubblica opinione che, anche in Italia, non si è mai rassegnata, ha promosso presidi, iniziative, cittadinanze onorarie, che hanno finito, per travolgere il muro dell’omertà e della complicità. In questo momento ci sembra doveroso ringraziare tutti i presidi di Free Assange, quanti hanno sostenuto la campagna, e Stefania Maurizi, giornalista del Fatto, che – sin dal primo istante – ha impugnato questa bandiera, subendo ironie, isolamento, diffamazione, spionaggio, ma non ha mai alzato bandiera bianca.

Ora sarà il caso di restare vigili perché tenteranno altre provocazioni, piazzeranno nuove trappole, tenteranno di impedire ad Assange e alla sua rete, oggi ancora più diffusa e solida, di tornare e a mettere il naso nei conflitti in atto, che hanno fatto della menzogna e dei dossier truccati, uno stile di comunicazione e di azione. Dal momento che a noi sta davvero a cuore la sorte della libertà di informazione, da oggi saremo ancora in lotta per chiedere la liberazione dei tanti cronisti rinchiusi nelle carceri del mondo.

Perché a noi, a differenza di chi ha sempre sparato alle spalle di Assange, sta a cuore la libertà di informazione e non il colore politico del regime oppressore, sempre, comunque e dovunque.

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