Come altre volte nella sua storia recente, anche per l’accordo giudiziario su Julian Assange l’amministrazione Biden si trova al centro di opposte polemiche. I Repubblicani accusano l’amministrazione di aver condonato un crimine che ha messo in serio pericolo la sicurezza nazionale statunitense, anche se la Casa Bianca nega ogni coinvolgimento nella decisione. I gruppi per i diritti civili esprimono sollievo per l’uscita di Assange dal carcere di Belmarsh – dove il fondatore di Wikileaks è stato rinchiuso in quasi totale isolamento per 1.901 giorni – ma esprimono comunque preoccupazione per la decisione dell’amministrazione di condannare a cinque anni una persona “impegnata in attività giornalistica”. La scelta di arrivare a un’intesa giudiziaria con Assange ha comunque, per Biden, un senso sia interno sia internazionale. Ed è per questo che il presidente l’ha presa, consapevole delle critiche che gli sarebbero arrivate.
Iniziamo dal quadro internazionale. Assange è cittadino australiano e l’Australia è uno dei Paesi più vicini agli Stati Uniti, con cui Washington proclama di condividere ideali di democrazia, libertà, governo della legge. Non si tratta soltanto di ideali. Con Australia e Regno Unito, gli Stati Uniti hanno messo in piedi AUKUS, la partnership strategica e militare nell’area indo-pacifica che diventerà nei prossimi anni sempre più importante, soprattutto in rapporto al contenimento delle ambizioni cinesi. Per almeno due volte, nei mesi scorsi, il premier australiano Anthony Albanese aveva chiesto la liberazione di Assange “il cui incarceramento non serve a nessuno”. Le ripetute richieste di estradizione presentate dalle autorità giudiziarie Usa ai tribunali inglesi avevano finito per sollevare fastidio, critiche, malcontento in vasti settori del Parlamento australiano. A questo punto, Biden non poteva continuare a perseguire un cittadino australiano il cui processo sarebbe potuto risultare in una condanna a 175 anni di carcere. Continuare nella “caccia” giudiziaria ad Assange avrebbe messo a rischio i rapporti con uno degli alleati più fedeli e strategicamente utili degli Stati Uniti. Alla fine, appunto, Biden ha preferito mollare il colpo.
C’è poi, come si diceva, una ragione interna che spiega la scelta di Biden. Questo, per lui, è un anno elettorale, che lo stesso presidente descrive come decisivo per la sopravvivenza della democrazia americana. Per Biden non sarebbe stato facile giustificare una persecuzione giudiziaria iniziata negli anni di Donald Trump. Fu infatti nel 2019, quindi sotto l’amministrazione del tycoon, che Assange venne incriminato per aver violato l’Espionage Act, la legge approvata per la prima volta nel 1917, quindi in tempo di guerra, per tutelare la “sicurezza nazionale” e colpire qualsiasi forma di critica al governo federale. Di qui, dunque, l’imbarazzo del presidente che si sarebbe trovato a portare avanti un’azione giudiziaria concepita dal suo avversario, Trump, che lui peraltro attacca per il suo autoritarismo e come “minaccia per la democrazia”. Sarebbe stata cosa elettoralmente utile, per Biden, soprattutto di fronte ai settori più giovani e progressisti del suo elettorato? Assolutamente no. Tenendo presente un altro elemento. Prima di lasciare la Casa Bianca, nel 2016, Barack Obama concesse la grazia a Chelsea Manning, l’ex analista dell’intelligence Usa che nel 2010 aveva passato migliaia di documenti classificati a Wikileaks. Biden non poteva dimostrarsi da meno. Non poteva mostrare di voler conculcare la libertà di espressione, laddove il suo predecessore democratico si era mostrato ben più benigno. Di qui, dunque, la scelta di patteggiare.
Detto questo, come prevedibile e come previsto dall’amministrazione, la liberazione di Assange sta già provocando opposte polemiche. I Repubblicani accusano Biden di aver restituito la libertà a un uomo pericoloso per la sicurezza degli Stati Uniti. Su X, Mike Pence, ex vicepresidente proprio di Trump, parla di “errore giudiziario” e scrive: “Non dovrebbe esserci patteggiamento per chiunque metta in pericolo la sicurezza delle nostre forze armate o la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Mai”. Sollievo per la liberazione di Assange, ma critiche al fatto che il fondatore di Wikileaks ha dovuto dichiararsi colpevole e accettare una condanna a cinque anni, vengono espressi da molti gruppi per i diritti civili. “Per la prima volta in 100 anni di storia dell’Espionage Act, gli Stati Uniti hanno ottenuto una condanna per semplici atti giornalistici”, afferma David Greene, direttore della Electronic Frontier Foundation Civil Liberties. “Queste accuse – spiega – non avrebbero mai dovuto essere avanzate”.