Sarebbe stato troppo per il vecchio e traballante Biden arrivare alle elezioni con lo spettro di Assange sempre davanti agli occhi, con tutti i problemi che già ha: questa è stata la principale causa della liberazione del giornalista australiano che, finalmente, ha lasciato il carcere di massima sicurezza di Belmarsh, nel Regno Unito, dopo 1901 giorni di detenzione e dodici anni di persecuzioni. La diplomazia di Francesco, poi, ha fatto molto, tanto.

Ma a determinare questo felice esito è stato un movimento mondiale di protesta che non ci sta a veder punito il fondatore di Wikileaks perché ne ha apprezzato il coraggio, forse lo spirito avventuriero, con cui ha pubblicato documenti segreti sottratti al Pentagono o al Dipartimento di Stato nei quali sono contenute, fra l’altro, rivelazioni sui crimini di guerra commessi in Iraq e Afghanistan: quelle carte provano i crimini di un potere distruttivo e mortale, quello degli eserciti americani che, dove si portano, uccidono in nome della democrazia e di un uso manipolato e vigliacco della parola libertà. Tutte le accuse che gli sono state rivolte sono state mosse da una chiara volontà politica di fargliela pagare.

Per questa ragione la liberazione del fondatore di WikiLeaks è la vittoria di una intera comunità che si riconosce in un giornalismo libero e che non si fa abbindolare dalle armi della persuasione con cui il neoliberismo cavalca le guerre e addomestica le popolazioni, stuprate e uccise, come Wikileaks ha dimostrato.

Julian Assange è libero e la soluzione scelta dal suo team legale è la migliore per sostenere le sue condizioni di salute e contrastare l’indebolimento della sua capacità di resistenza. La moglie Stella si dice “euforica”, e possiamo ben capirlo, dice che il contenuto del patteggiamento verrà reso noto appena lo convaliderà un giudice americano, domani alle Marianne: da quel che emerge, Assange si deve dichiarare colpevole di uno solo dei 18 capi d’imputazione sollevati in America – pretesa minima dal dipartimento di Giustizia di Washington – sulla base dell’Espionage Act: draconiana legge sul controspionaggio del lontano 1917 e mai evocata fino ad oggi. Ovviamente il patteggiamento con le autorità americane cancella la richiesta di estradizione. Ed è ciò che ha consentito agli inglesi di disporre sia il rilascio del giornalista – che compirà 53 anni il 3 luglio – sia la cancellazione delle udienze su un ulteriore appello della difesa contro la consegna agli Stati Uniti: già fissate a Londra per il 9 e 10 luglio.

Ma il capitolo ‘Assange’ non è chiuso e non solo per le sue sorti personali: la persecuzione giudiziaria che gli Stati Uniti hanno orchestrato contro di lui è senza precedenti, neanche con i Pentagon papers accadde, allora la guerra in Vietnam si dava per persa e non si aprì una sfida alle fondamenta democratiche dello Stato, si lasciò correre. Oggi questo potere imperiale vuole continuare le sue sfide guerrafondaie e perciò ha voluto inchiodare Assange, perché il mondo sappia a cosa si possa andare incontro a chi lo ostacola. Assange è libero è noi esultiamo ma non siamo liberi dalla minaccia di un potere micidiale. I movimenti democratici hanno risposto, ora questa vivace e bella prova deve essere messa al servizio di una campagna contro la guerra.

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