Riccardo Calafiori, il migliore di questa sgangherata e pessima nazionale italiana di calcio: sua l’ultima disperata percussione a centro campo, a pochi secondi dalla fine dell’incontro con la Croazia, capace di penetrare il folto centrocampo avversario, di resistere alla carica di un difensore e passarla al compagno più fresco e smarcato, il fantasista ventinovenne Mattia Zaccagni, messo in campo dal torpido Spalletti solo quasi al termine della partita. Passaggio perfetto, scatto di Zaccagni che tira e segna il gol della vita.

L’ispirata azione di Calafiori, il suo provvidenziale assist, sono la cosa più bella scaturita da una squadra velleitaria e sbagliata, anche per motivi diciamo così ideologici, poiché il nostro cittì (dalla fronte inutilmente stempiata, avrebbe scritto l’indimenticato Fortebraccio) ha preferito opzioni conservative, anche oltre ogni logica, dopo le prime due brutte partite di questo girone dominato dalla Spagna. Certo, è stato molto bello il gol che ha salvato per il momento la spedizione in Germania. Ma è stato il momento finale (azzeccato, per fortuna) dettato dall’impresa di Calafiori, il più bravo ed il più lucido degli azzurri, un momento che non nasce per caso. E’ un anno che Riccardo gioca su questi livelli, ben guidato al Bologna dal bravo e pragmatico Thiago Motta. Qui in nazionale ha trovato posto subito in prima squadra perché qualcuno si è fatto male prima di partire. Altrimenti… Già, altrimenti.

Il gesto tecnico ed atletico di Calafiori dimostra che ai giovani – lui ha appena compiuto 22 anni – deve essere data più fiducia e stima, e non deve essere soltanto un caso, dettato da circostanze fortuite; in Italia ci sono giocatori molto giovani e già eccellenti (penso allo straordinario attaccante Francesco Camarda del Milan, che trova sfogo solo in serie minori e nella nazionale under 17, che debbono essere valorizzati e fatti giocare con le squadre migliori, e non lasciati a bagnomaria: in Italia ce ne sono altri di Calafiori, ma la mafia dei procuratori preferisce puntare altrove, indirizzare le società “amiche” verso le più convenienti (per i loro interessi) aree del Sudamerica, dell’Africa (il nuovo Bengodi) e persino dell’Asia e dell’Australia, senza dimenticare gli Stati Uniti o il Canada; tutto, ovviamente, finalizzato a importare per quattro soldi giocatori che poi sono piazzati a caro prezzo presso le stesse società che potrebbero farne a meno ma che invece sono neghittose coi ragazzi delle loro giovanili: il concetto – ecco l’ideologia, chiamiamola così, di fondo che governa questo universo meschinello – è che il calcio globalizzato frutta subito, mentre i nostri giovani “devono maturare”.

Strano che succeda solo da noi. Non al Real, o al Barcellona, o al Bayern, o in Premier, o in Francia dove Kylian Mbappé, che ora ha 25 anni, quando ne aveva nove di meno era già al Monaco, l’antagonista di Marseille e Psg… La realtà è che vi sono complicità, familismi (nessuno ha mai condotto una seria indagine sul mondo di procuratori), cointeressenze, giri che spesso nascondono trucchi contabili (lo ha dimostrato una recente inchiesta giudiziaria): il risultato è che si porta ad un campionato europeo uno “bollito” come Di Lorenzo, che ha giocato un campionato molto sottotono, o uno come Jorginho che nell’Arsenal fa la riserva, a causa del suo pessimo stato di forma (e lo si è visto), quando alternative altrettanto valide, ma coraggiose, poteva essere fatte.

Quel che infatti hanno osato Spagna, Germania, Svizzera, Francia, Inghilterra dove, da tempo, si è adottato una politica ben diversa e proficua, perché un giovane valorizzato è destinato a creare movimenti di denaro interessanti e prolungati nel tempo; tant’è che abbiamo visto in campo, in questo Euro24, persino un sedicenne, poiché è successo nei rispettivi campionati o durante le Coppe europee. Ricordo che Gianni Rivera venne preso dall’Alessandria, dove già giocava, per rinforzare il Milan quando non aveva ancora sedici anni.

Un tempo, la serie A sapeva mettere in vetrina giovani e giovanissimi, alcuni dei quali destinati a carriere fantastiche, altri, comunque, ad onorevoli carriere. Non c’è miglior palestra che addestrare in campo, e non sulla panchina, una giovane promessa, rischiando sulle sue qualità.

Da noi prevale il pregiudizio che i nostri giovani calciatori siano immaturi e che debbano “andare a fare esperienza” in serie minori, col rischio che ci resterai per sempre. La nostra serie A è diventata sempre più un parcheggio per calciatori stranieri, ormai rappresentano il 70 per cento degli organici, assai fluidi perché poi prevale la legge di mercato che contempla l’inevitabile ma reclamata esigenza di cedere i più bravi per far cassa, salvo poi riutilizzare parte dei soldi ricavati dalle loro vendite per acquistare altri stranieri e non investirli nei giovani di casa nostra che pure a livello internazionale sono stati capaci di vincere Europei e di arrivare in finale nei Mondiali. Così foraggiamo le “cantere” spagnole, francesi, nord europee. Gestioni miope, dettate da chissà quali tornaconto.

Il risultato è che oggi metà delle società di serie A sono in mano agli americani (che hanno anche un sacco di società in serie B e persino in C, come la Triestina). Quasi sempre sono “padroni” che non hanno né esperienza né memoria né cultura di calcio, ma di business. Sono venuti per cementificare e costruire nuovi stadi con la scusa di modernizzarli, in verità per includere nel “pacchetto”, alberghi, centri commerciali, centri sportivi per benestanti e valorizzare le aree extraurbane coinvolte nelle operazioni. Speculatori che usano il calcio come leva per altri affari, approfittando delle cattive conduzioni societarie e finanziarie di proprietari che non hanno saputo accumulare solo debiti, e conduzioni societarie fallimentari. Dimostrando loro sì un’immaturità che scaricavano sulle spalle dei giovani.

Community - Condividi gli articoli ed ottieni crediti
Articolo Precedente

Inter, Çalhanoğlu mette a tacere le voci di mercato sui social: “Estremamente felice qui, non vedo l’ora di vincere altri trofei”

next
Articolo Successivo

Tour de France, a Firenze i francesi non s’incazzano: Bardet impresa e maglia gialla nel piccolo mondo antico della nostalgia italiana

next