“Non mi stupisce che sia emerso prima durante e dopo la campagna elettorale” un certo approccio, ma “nessun autentico democratico che creda nella sovranità popolare può in cuor suo ritenere accettabile che in Europa si tentasse di trattare sugli incarichi di vertice ancora prima che si andasse alle urne”. Con queste parole Giorgia Meloni “ufficializza” il tentativo di alcuni Paesi, si legga Francia e Germania, di isolarla ed estrometterla dalla futura maggioranza europea. “Maggioranza” è proprio il termine che la presidente del Consiglio contesta alle più importanti cancellerie europee e all’establishment di Bruxelles che, a suo dire, hanno messo sul tavolo quattro cariche apicali senza consultare tutti i Paesi, sostenendo che nella loro visione esistano Stati di serie A e di serie B. Così, a poche ore ormai dal Consiglio europeo del 27-28 giugno nel quale si punta a chiudere la partita sulle cariche apicali dell’Ue, aumentano le possibilità di un’astensione da parte dell’Italia sui top jobs che rischia così di far naufragare l’intesa sui tre nomi in pole: la popolare tedesca Ursula von der Leyen di nuovo a capo della Commissione, il socialista portoghese António Costa presidente del Consiglio europeo e l’estone Kaja Kallas, dei liberali di Renew Europe, Alto rappresentante per la politica estera. “Alcuni hanno sostenuto che non si debba parlare con alcune forze politiche”, ha detto la premier nelle comunicazioni alla Camera in vista del vertice, riferendosi ai partiti di centro e progressisti. “Le istituzioni Ue sono state pensate in una logica neutrale. Gli incarichi apicali sono stati affidati tenendo in considerazione i gruppi maggiori, indipendentemente da logiche di maggioranza e opposizione. Oggi si sceglie di aprire uno scenario nuovo, ma la logica del consenso viene scavalcata da quella dei caminetti, dove una parte decide per tutti. Una conventio ad excludendum che a nome del governo italiano ho contestato e non intendo condividere”.

“Conservatori terzo partito in Ue, ma esclusi dal tavolo”
La premier ribadisce il concetto anche durante le repliche, rispondendo alla deputata del Pd Marianna Madia: “La collega Madia dice che la ragione per la quale c’è l’accordo tra tre forze politiche è che il Ppe è primo partito, i socialisti il secondo e i liberali il terzo partito, quindi è la democrazia. C’è un problema: il terzo partito non è il partito liberale, sono i conservatori” di Ecr, rivendica. “Storicamente è accaduto che nella definizione dei ruoli di vertice si partiva dai gruppi maggiormente significativi. Oggi si sceglie di stabilire che quel meccanismo non va più bene perché il terzo gruppo oggi è un gruppo che non piace a chi decide di fare questa scelta. Sono d’accordo sul fatto che la democrazia sarebbe una cosa diversa, cioè sarebbe una scelta che rispecchia l’indicazione dei cittadini”. La leader di FdI prende a esempio i casi di tre grandi Paesi Ue: “Se c’è un dato indiscutibile che arriva dalle urne è la bocciatura delle strategie portate avanti dalle forze politiche al governo in molti delle grandi nazioni europee, che sono anche in molti casi le forze che hanno impresso le politiche europee degli ultimi anni. 16% in Francia, 32% in Germania, in Spagna il 34%. Solo in Italia il 53% degli eletti è espressione delle forze di governo. Mi batterò contro chi vorrebbe sublimare, in questo caso a livello europeo, una visione oligarchica e tecnocratica della politica e della società. Non mi stupisce che qualcun altro lo faccia perché appartiene alle sue basi culturali e perché è una lettura che consente di mantenere un potere da posizioni di debolezza. Non mi stupisce che questo approccio sia emerso, prima, dopo e durante l’appuntamento elettorale”. Nel pomeriggio anche il leader di Forza Italia, il vicepremier Antonio Tajani, ribadisce che “se si vuole avere una stabilità, bisogna aprire anche ai conservatori“, mentre “se ci fosse un accordo con i Verdi sarebbe molto difficile per noi” votare a favore. Gli atteggiamenti ostili del Ppe nei confronti di Ecr, dice, “sono sembrati anche a me singolari: volte si è presentato un pacchetto preconfezionato e anche questo non mi è piaciuto molto. L’Italia non può essere mortificata: le spetta un vicepresidente, che sia anche un commissario con un portafoglio importante”, sottolinea poi l’ex presidente dell’Eurocamera.

“Ok ai top jobs non vuol dire maggioranza solida”
La mancanza di condivisione, fa capire Meloni, rischia di creare problemi alla cosiddetta maggioranza Ursula, sia in sede di Consiglio Ue che a livello parlamentare: “L’errore che si sta per compiere con l’imposizione di questa logica, e di una maggioranza fragile e destinata probabilmente ad avere difficoltà nel corso della legislatura, è un errore importante non per la sottoscritta, per il centrodestra o per l’Italia, ma per un’Europa che non sembra comprendere la sfida che ha di fronte o la comprende ma preferisce in ogni caso dare priorità ad altre cose”. Poi, durante le repliche, precisa che un voto di Fratelli d’Italia a favore dei candidati ai top jobs non sarebbe una garanzia per tutto il mandato: “Vedremo in corso di legislatura, mettersi d’accordo sui top jobs non vuol dire avere una maggioranza e sicuramente non vuol dire avere avere una maggioranza solida”, afferma. E respinge l’accusa di scambiare il proprio appoggio al bis di Ursula von der Leyen, sostenuta anche dai socialisti, con una poltrona di peso per un suo fedelissimo in Commissione: “Non faccio inciuci con sinistra né in Italia né in Europa. Inciucio è essere sfiduciati e mettersi d’accordo con l’opposizione per mantenere il governo. Quello è un inciucio”. Poi attacca, senza nominarla, la segretaria Pd Elly Schlein che aveva chiesto di non includere la destra nelle trattative per le istituzioni Ue: “Trovo folle che si dica, da parte di chi rappresenta gli italiani in Europa, che non bisogna negoziare di fatto con la presidenza del Consiglio italiano, di fatto con il governo italiano, perché in Italia c’è un governo che non piace alla sinistra”.

Le repliche al Senato: “Qualcuno vuol mettere all’angolo intere nazioni”
All’ora di pranzo la premier deposita le sue comunicazioni anche al Senato, per poi intervenire in replica al dibattito in Aula. Il primo affondo è dedicato alla senatrice del Pd Tatiana Rojc, secondo cui “privilegiare la strada dell’interesse nazionale significa rifuggire le tendenze disgregazioniste e illiberali delle altre destre europee”. “Alla senatrice Rojc, che ha parlato di “forze disgreganti”, vorrei dire che penso sia disgregante la linea politica di chi ha come priorità, all’interno della costruzione europea, l’obiettivo di mettere all’angolo intere nazioni perché non condividono le linee politiche dei loro governi scelti dai cittadini”, attacca la premier, riferendosi sempre a Schlein. “È grave che le opposizioni dicano di non trattare con me, con il presidente del Consiglio italiano, io rappresento l’Italia. L’interesse nazionale per me viene prima dell’interesse di partito”, ribadisce. Poi torna a condannare l’esclusione dei conservatori dal tavolo sulle nomine: “Ci sono tre partiti che si considerano maggioranza e distribuiscono alcuni incarichi apicali”, dice. “Io credo che quella maggioranza sia fragile, ma in teoria le istituzioni europee non funzionano così, l’indicazione dei trattati dice che si segue il peso politico che i cittadini hanno scelto di dare ai gruppi presenti in Parlamento. Non è mai accaduto che si partisse da incarichi che dovrebbero essere neutrali e che questi venissero utilizzati in una logica di maggioranza e opposizione. Significa creare un precedente molto discutibile per l’idea che abbiamo di Europa”, afferma. Poi attacca ancora i governi di Francia e Germania, usciti male dalle urne: “Ci facciamo molto male se noi accettiamo una logica per cui si usano le istituzioni europee per saldare i conti delle debolezze in patria. Le nostre microbeghe non facevano danni finché eravamo in pace. Oggi concentrarci sulle microbeghe, dividerci tra di noi, può essere esiziale per il destino europeo”.

Un’Europa da cambiare
La conclusione della presidente del Consiglio alla Camera si riallaccia all’inizio del suo intervento, durato ben 45 minuti, su come, a suo parere, il voto, tra astensionismo e spostamento a destra generalizzato, dimostri che l’Europa debba tornare ad ascoltare i messaggi dei cittadini, senza arroccarsi e aggrapparsi a certezze che non sono più tali, sia in campo strettamente politico che economico. “Il nuovo Parlamento” che si insedierà a metà luglio è “frutto delle indicazioni espresse nelle urne che hanno rappresentato una tappa molto importante nella storia d’Europa da cui trarre importanti indicazioni” date anche da “tutte le forze politiche. In questi mesi tutti hanno sostenuto la necessità di un cambiamento nelle politiche Ue, nessuno ha detto che sarebbe stato sufficiente mantenere lo status quo. Tutti hanno concordato su un punto, ossia che l’Europa deve intraprendere una direzione diversa rispetto al posizionamento preso finora”.

Lo dimostrano i numeri, aggiunge, emersi dall’ultima consultazione europea: “La disaffezione” dei cittadini verso l’Ue si è “materializzata anche in un’astensione” che “non può lasciare indifferente” la classe dirigente che in Ue sembra “tentata dal nascondere la polvere sotto il tappeto continuando con logiche deludenti“. Logiche di Palazzo, come denunciato nel finale del suo intervento, ma anche logiche operative. E su queste è necessario “fare meno e meglio“, avviare un processo di “sburocratizzazione dell’Ue” che favorisca le riforme: “Penso che” la nuova presidenza della Commissione “dovrebbe pensare a una delega specifica alla sburocratizzazione per dare un segnale” di cambiamento. Bisogna “applicare anche in Europa il principio che applichiamo in Italia, non disturbare chi vuole fare, significa essere più attrattivi degli altri, disboscare la selva burocratica e amministrativa che finisce per essere un percorso a ostacoli che penalizza le imprese”.

Migranti: esternalizzazione e non redistribuzione
Uno dei dossier più cari all’esecutivo di Roma, sul quale la presidente del Consiglio chiede un cambio di marcia europeo, è quello dei migranti. E si mette alla testa dei Paesi dai quali prendere esempio per continuare nel processo di cambiamento già in atto e che porta verso un’esternalizzazione del problema: sulla gestione del dossier prima si parlava solo di “redistribuzione”, mentre “ora il paradigma è cambiato, ma è fondamentale che questo approccio sia consolidato e diventi strutturale – ha detto la premier – La stessa lettera che la presidente della Commissione von der Leyen ha ieri indirizzato ai capi di Stato e di governo va in questa direzione, stabilendo che questo approccio debba rimanere al centro delle priorità anche del prossimo ciclo istituzionale”. Un esempio? I “memorandum con l’Egitto e la Tunisia” che vanno replicati e vanno rimosse “le cause che spingono una persona” a lasciare la sua terra, serve dar corpo al “diritto a non dover migrare“. In questo passaggio, Meloni si sofferma anche sulla morte del bracciante indiano, Satnam Singh, abbandonato in strada dal suo datore di lavoro dopo che un macchinario gli aveva amputato il braccio. E usa parole dure per condannare il fenomeno del caporalato: ha parlato di una “morte orribile e disumana” con un “atteggiamento schifoso del suo datore di lavoro. Questa è l’Italia peggiore che lucra sulla disperazione”.

Green Deal: sostenibilità e non “ideologia”
Altro tema sul quale Meloni appare in linea con la maggioranza delle formazioni europee è quello di una riforma del Green Deal così come è stato concepito e lanciato cinque anni fa proprio da Ursula von der Leyen. Una indicazione arrivata dal voto per le elezioni europee è di “rimettere mano alle norme più ideologiche del Green Deal assicurando neutralità tecnologica. Vogliamo difendere la natura con l’uomo dentro, spesso in questi anni si è fatto il contrario, sfruttando tutte le tecnologie disponibili”.

Ucraina: sostegno senza sosta
Infine, il dossier Ucraina. Anche su questo, la linea del governo rimane fedele a quella intrapresa dalle istituzioni europee: sostegno senza sosta a Kiev. “Difendere l’Ucraina è nell’interesse dell’Europa. Se l’Ucraina fosse stata costretta ad arrendersi non ci sarebbero state le condizioni per un negoziato. Pace non significa mai resa”.

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