La pandemia ha portato con sé diverse lezioni. La prima, su tutte, è stata quella del lavoro da remoto. Persino grandi corporate polverose e ancorate a modelli preistorici hanno dovuto riconoscere l’efficacia di delocalizzare la propria forza lavoro dal canonico ufficio al contesto di casa.
La storia ha dimostrato che grazie al remote working non solo la produttività delle aziende non è calata, ma sono diminuiti i costi fissi legati agli affitti degli spazi di lavoro ed è aumentata nel complesso la soddisfazione dei lavoratori. Meno spostamenti coi mezzi, meno stress da presenza in ufficio, più tempo per la propria vita e il proprio benessere. Aziende di servizi non legate dunque alla produzione materiale di beni hanno dovuto riconoscere che consentire ai lavoratori di operare da casa fosse un vantaggio per tutti.
La notizia è che la banca americana Wells Fargo ha di recente licenziato alcuni dipendenti per aver finto di lavorare al computer da casa. I lavoratori mandati a casa farebbero parte della divisione Wealth and Investment Management e sarebbero colpevoli di “aver simulato attività sulla tastiera per dare l’impressione di lavorare attivamente”.
Per chi non lo sapesse, alcune aziende hanno infatti impostato dei sistemi di controllo che consentono di analizzare in tempo reale se un lavoratore stia usando il computer o meno. Questi sistemi, già implementati durante la pandemia da alcune aziende, inviano un segnale di alert ai responsabili aziendali se un lavoratore smette di usare la tastiera per un numero eccessivo di secondi. Questa azione viene infatti associata all’inattività lavorativa.
Sebbene la condotta dei lavoratori di Wells Fargo violi gli standard etici della banca, e dunque crei le condizioni di base per il loro allontanamento, a generare stupore è il fatto che esistano ancora oggi sistemi di controllo con questo livello di pervasività. La pandemia non solo ha mostrato in modo empirico che la produttività di un lavoratore non dipende dalla sedia che riscalda: ha soprattutto dimostrato che il lavoro vada impostato per obiettivi, non per orari di lavoro.
Se un lavoratore deve svolgere 15 micro attività lungo la sua giornata per soddisfare le esigenze dell’azienda che gli paga lo stipendio, che ci metta 6 o 8 ore è parzialmente irrilevante. Quello che conta è che le 15 micro attività vengano finalizzate. Misurare in modo ossessivo i secondi passati a usare la tastiera non dice nulla della reale produttività di un lavoratore: fotografa solo quanto tempo abbia speso con il pc aperto davanti.
La storia di Wells Fargo è esemplare perché sebbene si tratti di un’azienda americana, che dunque potrebbe essere percepita come lontana per il pubblico italiano, si ricordi che anche in Italia ci sono aziende che utilizzano questi sistemi di controllo. Negli Stati Uniti la facilità con cui un lavoratore può essere licenziato è superiore a quella del mercato del lavoro italiano, e per questo potrebbe essere più difficile inciampare in una notizia di questa portata nel Belpaese, ma è fondamentale non distogliere lo sguardo e pensare che si tratti di dinamiche distopiche distanti dall’Italia.
Ci sono aziende italiane che sono state forzate ad abbracciare il lavoro da remoto – vuoi perché i dati supportano questa scelta dal punto di vista finanziario, vuoi perché le nuove generazioni pretendono di poter lavorare del tutto o in parte da casa – ma i loro management ottuagenari sono ancora oggi ancorati a modelli vecchi di controllo del lavoro. E questo li porta a voler ingabbiare i lavoratori in una sorta di Grande Fratello in cui sono monitorati dall’inizio alla fine dell’orario lavorativo.
Con 20 dollari è possibile acquistare online dei “mouse movers” che imitano il movimento del cursore sul computer per ingannare i software di monitoraggio dell’attività, e far sembrare che il lavoratore sia effettivamente attivo. Il fatto che i lavoratori di Wells Fargo – e anche tanti dipendenti italiani – abbiano trovato modi creativi per raggirare queste forme di controllo non può istantaneamente far sospettare che tutti i lavoratori coinvolti siano pigri, furbi o in cerca di escamotage per evadere gli oneri lavorativi.
Che un lavoratore però debba anche solo arrivare a concepire un sistema ingannevole di questo tipo dice molto dell’ambiente alimentato dall’azienda. Un ambiente che anziché misurare la reale produttività – ovvero il numero di obiettivi raggiunti al giorno, a settimana, al mese etc – crea un regime di controllo totalitario il quale punisce i dipendenti-burattini che non sottostanno alla regola aurea del dover spingere costantemente i pulsanti della tastiera.
Come scimmiette ammaestrate, i lavoratori di queste aziende ossessionate dal controllo vengono declassati a protesi digitali, braccia rubate alla tastiera, corpi vuoti di ingegno che devono premere pulsanti più che svolgere attività. Un monito importante per tutti i lavoratori che si trovano e si troveranno ad avere a che fare con contesti aziendali in cui questi software di tracciamento della produttività sono ancora attivi.
Un’azienda che licenzia, o comunque mette in discussione il lavoratore per la sua inattività alla tastiera, è un’azienda che ha molta poca considerazione di se stessa (nel definire obiettivi chiari) e del lavoratore (di svolgere in modo corretto). Il consiglio estremo per tutti coloro che incontreranno queste azienda in Italia e all’estero potrebbe essere uno, e uno soltanto: scappare.