Se avessi insegnato in una scuola secondaria di primo grado italiano, storia e geografia è più che probabile avrei avuto l’immeritato privilegio di svolgere le mansioni di coordinatore. Ruolo che comporta una serie indefinita di oneri e nient’altro, immagino. Se quest’anno avessi avuto una terza, mi sarebbero toccati gli scrutini d’ammissione agli esami. Nel caso mi sarei presentato all’appuntamento con il materiale d’ordinanza, predisposto. Tabelle nelle quali ci sarebbero state una infinità di medie numeriche dei primi due anni e dell’ultimo da sommare dopo averne calcolata la corrispondenza a punteggi prestabiliti. Un lavoro che mi avrebbe dato l’illusione che esisteva la volontà di prendere in considerazione almeno in parte i risultati conseguiti.

Nel caso mi sarei presentato agli scrutini con le idee chiare. Guidato più che dai risultati conseguiti, da qualcos’altro che avrei ritenuto, da sempre, molto più importante di un “otto” oppure di un “quattro”. La perseveranza. L’impegno. Insomma la consapevolezza che è solo attraverso il lavoro che si possono raggiungere dei risultati. Nel caso, qualche ragazza oppure ragazzo avessero mostrato reiteratamente disinteresse non nei confronti delle conoscenze da acquisire ma dell’istituzione scolastica, non avrei avuto dubbi. Anche se qualche collega avesse cercato di farmi cambiare idea, elencandomi prima i problemi dell’alunna-o e poi additandomi come un mero ragioniere di voti. Del tutto disinteressato all’umanità.

Nel caso avrei anche io espresso il mio pensiero. Spiegando che a mio parere sarebbe stato più utile al ragazzo-a ripetere l’anno, piuttosto che arrivare alla scuola superiore, del tutto impreparato. Impreparato alla vita, ben inteso. Alle regole inderogabili dell’esistenza. In più con la convinzione, confortata dall’esperienza, che a prescindere da quel che si è fatto, la promozione è per tutti. Conclusione questa alla quale sarebbero giunti anche quelle ragazze e ragazzi che avessero lavorato. Sempre. Coraggiosamente.

Credo che a conclusione degli scrutini sarei stato molto deluso. Dall’affermazione del principio che le tante parole spese nel corso dell’anno per provare a correggere comportamenti inadeguati, per suggerire correttivi, avrebbero mostrato la loro più che trascurabile rilevanza. Dalla constatazione che “i problemi personali” delle ragazze e dei ragazzi, a dispetto della loro reale gravità, sarebbero divenuti dei lascia-passare. Sui quali sarebbe sconsigliabile provare ad eccepire. Altrimenti il rischio sarebbe quello di ricevere i commenti al vetriolo di colleghe e colleghi.

Se avessi provato delusione, avrei dovuto dissimulare. Molto meglio. E poi, nel caso, di lì a pochi giorni si sarebbe partiti con gli scritti. Le due lingue e matematica. Oltre ad italiano. Il tema, insomma. Secondo le indicazioni del Ministero dell’Istruzione e del Merito, con la possibilità di scegliere tra tre tracce, di tipologia differente. Un testo narrativo e/o descrittivo. Un testo argomentativo. Comprensione e sintesi di un testo.

Avrei corretto i temi svolti, attenendomi alle griglie di valutazione approvate nel corso dal dipartimento di lettere, del quale fanno parte tutti gli insegnanti della materia, quindi anche io. Nel caso, naturalmente. Probabilmente avrei dovuto verificare che a dispetto del mio maniacale impegno, i risultati sarebbero stati modesti. A parte rarissime eccezioni. Poche idee, esplicitate senza consequenzialità, con l’utilizzo di un lessico essenziale. Nessun guizzo. Così non mi sarebbe rimasto altro che riportare i voti della prova d’italiano, accanto a quelli delle altre prove in un foglio excel. Con questo patrimonio di numeri, mi sarei avviato agli orali. Con meno certezze rispetto a quelle degli inizi. E una delusione crescente. E con un dubbio sempre più prepotente sul ruolo degli insegnanti. E della Scuola.

Uno dopo l’altro, ragazze e ragazzi, si sarebbero seduti al centro del ferro di cavallo di banchi occupati da tutti gli insegnanti del Consiglio di classe. Trattazioni lontanissime dalle indicazioni del Ministero, nella stragrande maggioranza dei casi. Spessissimo “tesine”, piuttosto che mappe concettuali. Pezzetti di singoli materie, legati insieme non di rado alla bene e meglio. Con un argomento centrale che il più delle volte si sarebbe spiegato, a giustificarne la preferenza, “ho scelto perché fin da piccolo-a…”. Indifferentemente se si parlasse di calcio, oppure di vento. Di un colore oppure di un autore. Contenuti vuoti. Esposti in maniera inadeguata. Al punto da zittirmi. Zero interventi da parte mia. Se non sbrigativi “va bene. Passa all’argomento successivo”. Mentre avrei pensato che si trattava di un altro pezzetto di un’altra materia. Niente di più.

Sempre più deluso, nel caso sarei arrivato alla decisione, collegiale, sull’orale. E’ probabile che le mie valutazioni sarebbero potute essere molto differenti rispetto a quelle delle mie colleghe e dei miei colleghi. Più orientate su una disamina per quanto possibile oggettiva. Ma dopo gli scrutini e gli scritti mi sarei rassegnato. E’ probabile che mentre si ufficializzavano promozioni, che mi avrebbero imbarazzato, con voti in contrasto con la mia valutazione, avrei preferito tacere. Sempre più mortificato nel mio lavoro.

A questo punto la questione esami si sarebbe conclusa. E in attesa della pubblicazione dei risultati di lì a qualche giorno, avrei ripensato alla celebrazione alla quale avevo assistito. Più che partecipato. Non per scelta. quanto per l’impossibilità a farlo, realmente. Se avessi insegnato in una scuola secondaria di primo grado italiano, storia e geografia e quest’anno avessi avuto una terza, mi sarebbe toccata una infinita delusione nell’assistere – sostanzialmente inerme – ad una scuola che si affanna a dismettere il ruolo formativo che dovrebbe avere. Di persone, naturalmente. Quelle che fanno la differenza, sempre. Nonostante tutto. E tutti.

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