Doveva essere una mini riforma del Sistema sanitario nazionale. Una norma corposa per dimostrare ai cittadini, a una settimana dalle elezioni europee, l’attenzione del governo Meloni nei confronti della sanità. Ma in poche settimane, secondo i sindacati e i rappresentanti dei medici, il decreto legge anti liste d’attesa è diventato un testo scarno, senza coperture finanziarie, con pochi effetti tangibili per la popolazione e tempi di applicazione molto lunghi, se non addirittura impronosticabili. Annunciato in fretta e furia a inizio giugno, il provvedimento era talmente vasto che, passata la frenesia elettorale, è stato diviso in due testi diversi. Il decreto legge ha subito un deciso ridimensionamento, conservando solo le misure ritenute più urgenti, mentre il resto delle norme sono confluite in un disegno di legge più ampio, che seguirà l’iter parlamentare classico. Questo dietrofront della maggioranza e del ministro della Salute, Orazio Schillaci, non ha affatto tranquillizzato sindacati e associazioni di categoria, critici con la disposizione fin dalla sua prima stesura. Lo ritengono un provvedimento sovrabbondante nella forma ma povero nei contenuti, che non avrà impatto sui problemi strutturali del Ssn, vera origine delle interminabili liste d’attesa.
Per Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, siamo di fronte a un decreto senza risorse, con tempi di attuazione “biblici”, che sovraccaricherà ulteriormente i già stremati professionisti del Ssn. Intervenuto il 25 giugno in audizione davanti alla Commissione Affari Sociali del Senato, il presidente ha invitato ad affrontare il problema delle liste d’attesa in profondità, “smettendo di guardare al dito e non alla luna”: “Abbiamo perduto la capacità del Ssn di prendere in carico i pazienti, soprattutto quelli cronici e oncologici – commenta Cartabellotta -. Pazienti oggi costretti, come novelli Ulisse, a peregrinare tra diversi Cup, tra vari ospedali e persino in Regioni diverse, nel disperato tentativo di prenotare una visita o un esame diagnostico”. Senza risorse economiche aggiuntive sarà molto difficile ridurre i lunghissimi tempi d’attesa con cui è costretto a confrontarsi chiunque voglia effettuare una visita o un esame diagnostico passando per il Ssn.
“Bisogna investire sul personale sanitario aumentando gli organici e non stremare ulteriormente quello già in servizio, con il rischio di alimentare ulteriormente la fuga dei professionisti dal Ssn”, prosegue Cartabellotta. Il riferimento è all’articolo 7 del decreto che prevede una defiscalizzazione dei compensi erogati ai professionisti per le prestazioni aggiuntive. In pratica, un medico pagherà meno tasse sulle ore lavorate in più, fuori dal suo orario. Inoltre, l’articolo 4 disciplina che, per ridurre i tempi degli esami ed evitare il prolungamento delle degenze, le visite diagnostiche e specialistiche siano effettuate anche il sabato e la domenica, in una fascia oraria più ampia. Cosa che, secondo i sindacati, avviene già da tempo nelle strutture italiane.
Per il presidente di Gimbe, piuttosto, sarebbe più utile ridurre la domanda inappropriata di esami e visite. Il potenziamento dell’offerta di prestazioni sanitarie potrebbe, infatti, innescare un circolo vizioso. “È una strategia perdente. Come dimostrano numerosi studi, una volta esaurito il cosiddetto effetto spugna nel breve periodo, l’incremento dell’offerta induce sempre un ulteriore aumento della domanda”, spiega. Per questo è indispensabile definire dei criteri precisi sull’appropriatezza di esami e visite specialistiche, da affiancare a un piano di formazione per i professionisti e uno d’informazione per pazienti. In questo modo potrebbe essere arginata la domanda inappropriata di prestazioni che ingolfa gli ospedali senza portare reali benefici in termini di salute alla popolazione. “Se i professionisti sono sempre gli stessi e i carichi di lavoro sono già inaccettabili, come potranno mai essere erogate le prestazioni anche il sabato e la domenica, senza violare la direttiva Ue sugli orari di riposo?”, chiede il presidente della Fondazione.
Infine, c’è il nodo dei tempi. Il decreto dovrà essere convertito in legge entro il 6 agosto. Ma per essere pienamente operativo dovranno prima essere approvati almeno sette decreti attuativi diversi, le cui scadenze non sono molto chiare. Un elemento in contrasto con il carattere d’urgenza del provvedimento. “Al di là delle rassicurazioni di Schillaci – spiega Cartabellotta -, la storia insegna che, tra valutazioni tecniche, attriti politici e passaggi tra Camere e Ministeri, dei decreti attuativi si perdono spesso le tracce. E questo rende impossibile applicare le misure previste”.
Critico con il decreto anche Alessandro Vergallo, presidente nazionale di Aaroi-Emac (Associazione anestesisti rianimatori ospedalieri italiani – emergenza area critica). Per Vergallo, il provvedimento ha il pregio di dimostrare l’intenzione di voler mettere mano a un problema che pesa da anni sulle spalle dei cittadini e dei professionisti sanitari. La critica, però, è che per affrontare un tema complesso si è scelto un “approccio semplicistico”. Uno dei punti oscuri del testo resta il reperimento delle risorse. Il decreto, infatti, è frutto di un braccio di ferro tra il ministero della Salute e quello dell’Economia. Lo scontro sembra averlo vinto il Mef: tutte le misure previste sono da realizzarsi senza lo stanziamento di ulteriori fondi. I finanziamenti necessari saranno sottratti ad altri capitoli di spesa, per non gravare sulle casse dello Stato.
“Ci sono degli aspetti che accogliamo positivamente – commenta Vergallo a ilfattoquotidiano.it -, per esempio la defiscalizzazione delle prestazioni aggiuntive. Potrà servire come una leva di attrattività, per tentare di riavvicinare i professionisti al Ssn e, di conseguenza, diminuire il ricorso della sanità pubblica ai costosi gettonisti delle cooperative”. Il problema, spiega Vergallo, è che i finanziamenti necessari per questa misura verranno ricavati sottraendo risorse ad altri fronti che non possono essere sacrificati. “Dopo anni che ne parlavamo, la defiscalizzazione è stata introdotta in maniera estremamente precipitosa”, spiega. “Ci rimane il dubbio se sarà possibile renderla strutturale o meno nei prossimi anni. Sarebbe stato più opportuno predisporla fin da subito pensando alla sua sostenibilità nel lungo periodo. Invece è stata introdotta come misura d’emergenza”.
Infine, c’è la paura che il decreto anti liste d’attesa sia un ulteriore passo verso la privatizzazione del Sistema sanitario nazionale. “Dietro il testo c’è l’idea che il sistema privato, come un’entità salvifica, abbia forza e capacità sufficienti per poter supplire alle carenze del Ssn. Non è così. Nell’ultimo periodo, proprio per il progressivo spostamento delle prestazioni sanitarie verso le strutture private, stiamo assistendo a un aumento delle liste d’attesa anche nel sistema privato. A dimostrazione che anche il privato farà fatica ad assorbire queste norme”, conclude.