di Carmelo Zaccaria
Sui social un fiorire di siti che pubblicano foto d’epoca: “Roma di una volta”, “Cagliari fotografica – Tra passato e presente”. Non mancano piccoli borghi, paesi di provincia, pronti ad esibire memorabili scatti fotografici, con scenari idilliaci, atmosfere mitiche, come fossero cimeli da contemplare, storie suggestive del tempo passato, che si presume essere sempre epico e affascinante. Riemergono dal cassetto foto di viuzze sterrate, polverose, fontanelle dismesse, insegne scomparse, omnibus su rotaie, cerimonie con bandiere e gagliardetti, processioni religiose con baldacchino e brigadieri orgogliosamente impettiti, a lato del santo patrono. Sfilate di giovani spose con codazzo festante di parenti sul tratto di strada che conduce in chiesa. Un parroco, in fremente attesa sul sagrato, sorpreso dall’obiettivo della fotocamera, mentre apostrofa due chierici scapestrati, come in Amarcord. E poi un profluvio di primi piani sorridenti, volti accigliati, sornioni, imbarazzati, spesso malinconici.
Si condividono immagini private, ritratti di famiglia, pudicamente riservati nel secondo tiretto del comò, sotto le lenzuola di stagione, tirati a lucido per l’occasione, come reliquie preziose, sentinelle imperiture dei bei tempi andati. Bei tempi? Non direi. Ancora a fine anni sessanta le nostre contrade erano buie, pietrose, sporche, l’igiene era scarsa, il lavoro, per la maggior parte agricolo, era terribile e faticoso, dall’alba al calar del sole, si moriva per un nonnulla e si emigrava per meno. Il solo fascino del passato, diceva Oscar Wilde, è che è passato.
Ma, si sa, Facebook stritola tutto ed inganna persino la memoria. I social e internet, bisogna ribadirlo, sono il grande bordello della società contemporanea. Nel suo dilagante ciarpame una foto casta, discreta, custode dignitosa di un trascorso magico e indelebile, fa presto a perdere la sua essenza, la sua sacralità, a tramutarsi in scatto incolore, evanescente, insignificante. Risucchiati dall’idrovora del web, dalla sua morsa ammaliatrice, dal suo voyerismo malizioso e decadente, resta l’illusione che gli altri, il pubblico degli esegeti digitali, i mestieranti delle chat, possano davvero cogliere il valore di quegli attimi, apprezzare l’autenticità di quelli sguardi, il loro intimo segreto.
Ci rifuggiamo nel passato, idealizzandolo, anche per far evaporare l’angoscia dell’oggi, per scacciare la sua impresentabilità, per rigettare la pena e il disagio di una modernità incerta e traballante, rispetto ad un vissuto, nobile e onorato, segnato da legami semplici e genuini, da destini scintillanti, che davano senso e spessore ad un’intera comunità. Ci lasciamo teneramente incantare dal passato, perché desideriamo allontanarci dall’imbroglio caotico del presente. Uno sconforto generato probabilmente dalla scomparsa del profondo sodalizio, forse irrimediabilmente perduto, tra l’uomo con la natura.
Le foto esaltano gli anni dell’innocenza, la ricerca impavida dell’ignoto, il gioco ritmato e senza malizia del tempo che menava fendenti all’uomo, tra guerre e malattie, ma gli restituiva la pienezza sconfinata della vita, dove tutto era a portata di mano e tutto era permesso toccare. Tutto si faceva sognare.
Oggi ci manca lo spazio, ci è sottratta persino l’aria, mancano luoghi dove poter respirare e abbracciare gli altri, che non siano le quattro mura di casa. Non ci sono varchi da attraversare, lembi di cortile in cui salterellare. Tutto sembra precluso all’incontro e alle voci umane. Nei nostri centri urbani, poi, ogni pertugio è diventato impunemente proprietà esclusiva delle auto, si assiste attoniti al loro flusso crescente e sempre più ingombrante. Più che ripristinare l’idea aulica del passato, prima di compiacersene, forse si dovrebbe pensare a presidiare il respiro delle nostre strade, liberarle dal rumore, dal disordine, dal puzzo soffocante degli scarichi, da una presenza diventata ormai apocalittica. Un’altra visione del futuro, un altro scatto, è possibile.