August von Platen (Ansbach, 1796 – Siracusa, 1835) a partire dal 1824 visse quasi ininterrottamente in Italia, soprattutto tra Roma e Napoli; giunse per la prima volta a Venezia nel 1824 e l’anno successivo nacquero i Sonetti veneziani, dai quali propongo una scelta.

Il suo amore per l’Italia, per la vita e per la bellezza, unito a una lieve melancolia, si manifesta nei Sonetti con eleganza e commovente forza emotivo-intellettuale, celebrando Venezia e piangendone la perduta indipendenza politica. Continuando e consolidando un legame tra Germania e Italia che comincia, come minimo, con il viaggio in Italia di Goethe (1786-1788), von Platen esprime nella forma chiusa e severa del sonetto lo streben (slancio, struggimento, profondo desiderio) per la bellezza che si manifesta nelle arti figurative e negli stessi spazi architettonici e urbani di Venezia e, proprio nel mentre ne scrive, attraverso la sua parola poetica e il ritmo della lingua.

A. D.

***

Il mio sguardo aveva lasciato indietro il mare
quando dai flutti emersero i templi del Palladio
sui cui gradini s’infrangevano le onde
che ci avevano portati fin lì senza ostacolo.

Attracchiamo, ringraziamo la buona sorte
e la Laguna sembra volarsene indietro,
gli antichi colonnati dei Dogi stanno
innanzi a noi solenni – e anche il Ponte dei Sospiri.

Il leone di Venezia, un tempo orgoglio di Venezia,
lo vediamo stagliarsi con le sue ali di bronzo
in cima all’alta colonna.

Scendo a terra, non senza timore e incertezza –
Piazza San Marco risplende nella luce solare:
oserò davvero attraversarla?

***

Questo labirinto di ponti e di calli,
che in mille nodi s’incrociano,
come riuscirò a scioglierlo?
Come potrò afferrare questo grande enigma?

Salendo dapprima sulle terrazze del Campanile di San Marco
posso spingermi ben lontano con lo sguardo
e dalle meraviglie che mi circondano
scaturisce un’immagine – perspicue si fanno le forme.

Lì saluto l’Adriatico, oceano blu,
e qui le Alpi che in ampio arco
guardano in giù sulle isole della Laguna.

E guarda! qui giunse un popolo coraggioso in fuga
a costruire palazzi e templi
su piloni di quercia nel mezzo delle onde.

***

Ora ho superato il senso di vertigine
e non vago più qui e là nella distanza.
Il mio spirito ha conquistato una guida sicura
da quando ha trovato finalmente un amico.

Ora ti appartiene, amico, il mio tempo,
mi hai donato una meta verso cui muovo,
mi affretto di qua o di là
dove so che posso incontrarti.

Mi saluti da un altare,
il tuo spirito è anelito di armonia
e la tua dolce anima ama il vero.

O quale felicità consegnarsi intero a te
e, se fosse possibile, anno dopo anno
vivere insieme con i tuoi angeli, Giovanni Bellini!

***

In un primo tempo ho fatto poco caso a te,
Tiziano, uomo ricolmo di forza e di vita!
Adesso mi vedi tremare innanzi alla tua grandezza
da quando ho contemplato l’Assunzione di Maria!

La mia mente, tarda, era oscurata dalle nubi,
come quelle che si librano ai piedi dei tuoi Santi:
ora vedo te anelare allo stesso cielo
per il quale Maria nell’intimo si strugge!

Quasi al tuo fianco si dà a vedere il Pordenone:
in vita non volevate cedere l’uno all’altro –
morti, ognuno di voi due ha la sua gloria!

Affratellati potete ancora porgere la mano
al fedele, conterraneo Giorgione
e a quel Paolo cui ben pochi pittori sono pari!

***

Un lungo, eterno sospiro sembra abitare
in quest’aria che si muove piano,
mi soffia incontro da quelle sale
dove un tempo signoreggiavano allegria e giubilo.

Venezia è caduta – malgrado le sue ere grandiose
non è possibile riportare indietro la ruota della fortuna:
vuoto il porto, poche navi attraccano
alla bella Riva degli Schiavoni.

Quanto sei andata orgogliosa un tempo, Venezia,
fiera dama in abiti d’oro
proprio come ti ha dipinta Paolo Veronese!

Adesso un poeta, meravigliato, sta davanti
allo splendore della grande scalinata e paga
il suo tributo di lacrime che non può mutare nulla!

***

Che cosa rimane infine della vita?
Che cosa riusciamo a mettere al sicuro dei suoi tesori?
La dorata felicità, il dolce piacere
passano rapidi – fedele è solo il dolore.

Prima che le mie ultime ore precipitino nel nulla
voglio vagare ancora in lungo e in largo,
il mare di Venezia, le sale marmoree di Venezia
guardare con i sensi stupiti colmi di nostalgia.

L’occhio si muove con instancato slancio
come se nello specchio ch’esso è s’attardasse
ciò che non riesce a librarsi un po’ più a lungo davanti a lui:

infine, sottraendosi all’ultimo impulso,
cade su quel volto (ah!) per l’ultima volta
nella brevità dell’esistere uno sguardo d’amore.

***

Quando pesante melancolia culla la mia anima,
amo aggirarmi per le botteghe di Rialto –
per non smarrire lo spirito in quisquilie
ricerco il silenzio che sopravanza il giorno.

Allora guardo spesso, affacciato dai ponti,
nelle vuote onde che silenziose tremolano
là dove – oltre i muri a metà intaccati –
un alloro sevatico sporge i rami.

E quando in piedi sui gradoni di pietra
spingo lo sguardo a perdersi nel nero mare
(con lui i Dogi non celebrano più le nozze)

allora a malapena mi ridesta sulla riva silenziosa,
risuonando di quando in quando
da canali distanti, il richiamo dei gondolieri.

***

Con questo contributo, Linguafranca va in vacanza: ci rivediamo a settembre con nuovi autori e nuove traduzioni. Buona estate!

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