Quando nel gennaio del 1952 i pescatori di Trappeto, villaggio nel golfo di Castellammare non lontano da Partinico, tra Trapani e Palermo, videro arrivare un uomo alto e robusto che veniva dal Nord, parlava in italiano e diceva di voler stare con loro per comprenderne le condizioni, vivere da “fratelli” e dare una mano, e rispondeva al nome di Danilo Dolci, lo riconobbero come il ragazzo figlio del capostazione che aveva passato lì qualche estate di oltre dieci anni prima, ma non compresero subito che cosa fosse venuto a fare in quel posto senza strade ne fognature, dove dilagava la miseria assoluta che Carlo Levi racconterà ne Le parole sono pietre. Lo compresero appieno a partire dal 14 ottobre dello stesso anno quando un bambino, Benedetto Barretta, muore letteralmente di fame davanti a lui e Dolci decide di distendersi sul suo misero giaciglio e di iniziare un digiuno finché le cose non sarebbero cambiate, avendo concordato con altri pescatori che, se lui fosse morto, loro avrebbero continuato la protesta estrema.
Danilo Dolci era nato il 28 giugno del 1924 a Sesana, allora in provincia di Trieste oggi in Slovenia, nel 1943 rifiuta l’arruolamento nella Repubblica di Salò, sfugge all’arresto e trova rifugio nella campagna abruzzese. Dopo la guerra, svolge gli studi di architettura a Milano mentre insegna alla scuola serale e scrive poesie, oltre a manuali sui materiali di costruzione. Ma spinto dalla continua ricerca culturale ed umana, nell’Italia del primo dopoguerra, fa la scelta fondamentale della sua vita: lascia l’architettura e sceglie di stare dalla parte di chi non aveva “né case né soldi”. Così nel 1950 abbandona l’Università e va ad aiutare don Zeno Saltini nella comunità di Nomadelfia che accoglieva gli orfani di guerra nell’ex campo di concentramento di Fossoli di Carpi, nel modenese. Ma anche quell’esperienza, che necessariamente accoglieva alcuni e lasciava fuori molti, non gli sembra ancora il contesto giusto nel quale poter portare pienamente il proprio contributo. Da qui la decisione di andare a Trappeto, nel posto più povero e contemporaneamente più ricco di umanità che avesse mai visto.
In molti si accorgono dell’impegno trasformativo di Danilo Dolci, in Italia e nel mondo. Durante quel primo digiuno di protesta, nonostante la scarsa attenzione della stampa, gli arriva una lettera da Perugia nella quale c’era scritto che non aveva il diritto di morire, se prima non avesse informato della situazione tutti coloro che potevano aiutarlo. Era firmata da Aldo Capitini, il filosofo della nonviolenza, che Dolci non conosceva ma che da allora diventerà il punto di riferimento teorico del suo impegno, attraverso numerosi incontri ed un epistolario che si concluderà solo con la morte del fondatore del Movimento Nonviolento (Aldo Capitini, Danilo Dolci, Lettere 1952-1968, a cura di Giuseppe Barone e Sandro Mazzi, Carocci, 2008). Comincia allora, sempre più consapevolmente per Dolci la lotta nonviolenta di ricerca, coscientizzazione e disobbedienza civile svolta tra e con i braccianti e i pescatori siciliani al punto da essere definito il “Gandhi italiano”.
Tra le molte inchieste – tra le quali Fate preso (e bene) perché si muore, 1954 e Banditi a Partinico, 1955 – e le altrettante azioni, il 30 gennaio del 1956, anniversario dell’omicidio di Gandhi, con una giornata di digiuno collettivo sulla spiaggia di Partinico dà l’avvio allo sciopero alla rovescia, che porta i disoccupati a lavorare per la ricostruzione di una trazzera, una strada comunale abbandonata: una protesta nonviolenta per il lavoro e contro gli intrecci criminali tra gli agrari, la politica, la mafia. Dolci venne arrestato e il celebre processo, nel quale fu difeso da Piero Calamandrei, accese un faro tanto contro la grave situazione economica e sociale delle masse siciliane costrette in miseria da un sistema di dominio mafioso del territorio quanto sul metodo nonviolento (Processo all’articolo 4, 1956). Aldo Capitini dedicherà a Dolci due libri, Rivoluzione aperta (1956) e Danilo Dolci (1958), e Johan Galtung, ricercatore norvegese fondatore del Peace Studies internazionali, andrà a trovarlo più volte in Sicilia per studiarne il sistema di violenza e approfondirne il metodo nonviolento (Gandhi, Dolci e noi ne scriverà su Il Ponte, 1957 n. 3).
E’ troppo ricca la vicenda umana, sociale e culturale di Danilo Dolci per poterla riassumere in poche righe – rimando all’ottimo volume di Giuseppe Barone Danilo Dolci. Una rivoluzione nonviolenta (Altreconomia, 2024) – qui aggiungo che il metodo di Dolci, colpevolmente rimosso dalla cultura italiana dominante ma vivo attraverso canali carsici, è stata un’azione politico-educativa sotto forma di “autoanalisi popolare” per comprendere a fondo i problemi, le cause e le soluzioni comunitarie, dal dominio dei pochi al potere di tutti. È la costruzione di un metodo di ricerca collettiva, la “maieutica reciproca”, a partire dalla quale si generano le azioni nonviolente, tra le quali le lotte per la costruzione della diga sul fiume Jato, le Marce per la pace e il “mondo nuovo” in Sicilia, le denunce “esatte” contro la collusione politico-mafiosa e la trasmissione nella prima radio libera d’Italia (Radio Libera Partinico, “la radio dei poveri cristi”), che porteranno Dolci e alcuni suoi collaboratori a subire diversi processi e incarcerazioni. L’azione educativa popolare diventerà, con il tempo, specifico impegno metodologico rivolto anche ai bambini e ai ragazzi, con importanti sperimentazioni nel Centro educativo di Mirto inaugurato nel 1975, pubblicazioni pedagogiche, riconoscimenti internazionali e numerosi seminari maieutici in vari Paesi.
L’ultima denuncia di Danilo Dolci nel 1997, ormai ammalato, è contro le basi Nato alla Maddalena, in Sardegna, sede di sommergibili nucleari statunitensi, intorno alla quale vige un sistema di servilismo ed omertà, perché il dominio del complesso militare-industriale agisce come “un tipico esempio di sistema mafioso-clientelare (segreto parossistico e violento) a livello internazionale” (Comunicare legge della vita, 1997), contro il quale è necessario lottare ancora. Del resto, come aveva avvisato già nel 1971 “non è possibile prevedere se gli uomini sceglieranno di sopravvivere o di suicidarsi: ma se sceglieranno la vita – per paura se non per amore – questa scelta significherà l’invenzione sempre più scientificamente organica dell’azione e della rivoluzione nonviolenta” (Non sentite l’odore del fumo?). A cento anni dalla nascita di Danilo Dolci, la scelta tocca a noi.