Gli iraniani tornano alle urne in anticipo per eleggere il 14esimo presidente della Repubblica islamica, dopo la morte improvvisa di Ebrahim Raisi in un incidente in elicottero dello scorso 19 maggio. Con un tasso di inflazione che ha toccato il 48% quest’anno, rispetto al 32% registrato alla fine del mandato di Hassan Rouhani, nel 2021, l’economia iraniana è oggi in forte sofferenza. Motivo per cui quello economico è stato il tema principale degli ultimi dibattiti televisivi tra i candidati.

Candidati che non sono più sei, ma quattro: il 26 giugno, Alireza Zakani, sindaco di Teheran, nonché uno dei cinque candidati principalisti, ha annunciato il suo (prevedibile) ritiro dalla corsa elettorale nell’intento di rafforzare il fronte e convogliare i voti degli elettori conservatori su un solo candidato forte, tentando quindi di impedire la dispersione delle preferenze. Meno di quarantotto ore prima, aveva fatto lo stesso Amir Hossein Gazizadeh Hashemi, mosso da analoghe motivazioni. Secondo l’Iran Students Polling Centre, in ogni caso, i due avrebbero avuto un peso elettorale relativo, che si aggira attorno al 4% in aggregato.

Diventerà presidente il candidato che otterrà almeno il 50% dei voti. Se questa maggioranza – come è assai probabile per il combinato disposto di bassa affluenza attesa e assenza di candidati “forti” – non dovesse materializzarsi al primo turno, andranno al ballottaggio (previsto eventualmente per il prossimo 5 luglio) i due candidati che hanno ricevuto più voti.

Proprio nell’annunciare un passo indietro, Zakani ha agitato lo spauracchio di un “nuovo governo Rouhani“, in riferimento al rischio che possa inaspettatamente vincere l’unico candidato riformista, Masoud Pezeshkian, che ha ricevuto gli endorsement pubblici di ex presidenti come Mohammad Khatami e di ex ministri degli Esteri come Javad Zarif. Secondo alcuni sondaggi effettuati lo scorso 26 giugno dal Porsesh PR, dall’Iranian Students Polling Agency e dallo Shenaakht Center, il consenso per Pezeshkian si aggirerebbe oggi tra il 30% e il 38%, superiore a quello stimato per i due candidati più forti del fronte conservatore, cioé Saeed Jalili e Mohammad Qalibaf. I consensi per il primo vengono stimati tra il 20% ed il 28%, mentre quelli per l’ex speaker del Parlamento in una forbice tra il 18% e il 20%. Numeri alla mano, un eventuale ritiro – come già successo ad entrambi in passato, in momenti diversi – di uno tra Jalili e Qalibaf renderebbe automaticamente l’altro un “candidato forte“, anche se forse non in grado di raggiungere il 50% al primo turno.

Tuttavia, se la grande questione nel fronte principalista è la divisione interna, i micro conflitti tra conservatori tradizionalisti e conservatori oltranzisti, o su altre linee di frattura, come quelle in seno ai Guardiani della Rivoluzione, al seminario di Qom o sulla futura successione della Guida Suprema, Ali Khamenei, nel fronte riformista allargato, al quale si sono associati anche molti centristi, il vero grimaldello può essere la partecipazione di un elettorato largamente sfiduciato, disilluso, in buona parte apatico.

Se le chance di uno tra Qalibaf e Jalili dipendono dal grado di saldatura interna al fronte conservatore, dalla sua capacità di estinguere le fratture endogene e promuovere efficacemente un unico candidato, le possibilità di Pezeshkian sono quasi del tutto da ricercare all’esterno del fronte riformista, o nella sua capacità di convincere questo segmento di elettorato, dopo oltre dieci anni di squalifiche elettorali da parte del Consiglio dei Guardiani, che le elezioni in Iran hanno ancora un valore.

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