Il 28 giugno del 1914, a Sarajevo, vengono assassinati l’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono degli Asburgo, e sua moglie Sofia. Si mette in moto un meccanismo che, nel giro di poche settimane, porta allo scoppio della Prima guerra mondiale.

Ben 14 paesi europei imbracceranno le armi; contando anche gli Stati extraeuropei, alla fine il totale salirà a 35. Ma il conflitto diventa pure la prima guerra totale. Guerra totale vuol dire: avere obiettivi totali (la resa incondizionata dell’avversario o la sua distruzione); utilizzare metodi totali di combattimento (violando il diritto internazionale e i limiti morali riconosciuti); ricorrere alla mobilitazione totale (finalizzando tutte le risorse umane e materiali agli scopi bellici); e cercare il controllo totale della vita nazionale, subordinandola integralmente agli obiettivi bellici. È evidente che da quel momento in poi – basti pensare a quello che abbiamo davanti ai nostri occhi – il mondo non è più tornato indietro: i civili sono diventati i primi protagonisti e, nello stesso tempo, i primi bersagli dei conflitti contemporanei.

Tutti i paesi che prendono parte allo scontro mettono in atto pratiche violente contro la popolazione dei paesi nemici: diventa frequente l’internamento dei civili, la cattura di ostaggi, le deportazioni, le evacuazioni forzate, l’uso di azioni terroristiche per traumatizzare e colpire il morale dei non combattenti, con i bombardamenti sulle città, il blocco dei rifornimenti dei generi di prima necessità, la riduzione degli alimenti, le rappresaglie e le contro-rappresaglie, i bombardamenti degli ospedali militari o il siluramento delle navi-ospedale, finanche l’uso di scudi umani.

E gli intellettuali, ovvero il mondo della cultura e del giornalismo, contribuiscono a piene mani all’esasperazione dell’atmosfera. Nella demonizzazione dell’avversario, si scatenano le fantasie più oscure. Nella stampa anti-germanica, c’è chi comincia a scrivere che i tedeschi nelle loro colonie africane hanno dato il via a una “macabra industria: quella della concia umana“. Che i cadaveri dei bambini vengono scuoiati e la loro pelle lavorata fino ad ottenere “un prodotto assai morbido, quasi vellutato”. Non è perciò difficile vedere a Berlino ufficiali, si dice, in possesso di portafogli di pelle umana.

C’è anche chi ipotizza che il progetto tedesco miri non solo al dominio mondiale, ma pure a un generale “riassetto” dell’umanità che, in caso di vittoria, sarà divisa in tre classi: i “Germani puri”, i “meticci” – che non potranno mai aspirare ad unirsi né sentimentalmente, né sessualmente ai primi – e i “latini”, che saranno trattati come schiavi e alla fine eliminati progressivamente.

Queste perverse fantasie propagandistiche – che in modo significativo rappresentano però una drammatica anticipazione di quanto accadrà nel corso della Seconda guerra mondiale – sono l’espressione di quella “cultura di guerra” che si sviluppa in tutti gli Stati coinvolti, con l’obiettivo di accrescere l’odio per il nemico e legittimare i sacrifici che il conflitto richiede. Proprio il ruolo fondamentale ricoperto dagli intellettuali nella produzione e nella circolazione di queste false accuse mette in discussione una convinzione ancora oggi molto diffusa: che la cultura sia nemica della violenza, perché legata al confronto, alla cooperazione, alla condivisione.

Di fronte alle gravissime responsabilità degli intellettuali nello scoppio della guerra civile in Rwanda e Burundi negli anni 90 del secolo scorso, una donna sopravvissuta al massacro ha sintetizzato questa illusione in modo solare: la cultura serve solo a fare meglio ciò che si vuole fare. Alla conferenza di Wansee, ad esempio, che è considerata uno dei momenti decisivi del cammino verso la Soluzione finale, quasi tutti i presenti avevano titoli di studio elevati, più della metà aveva fatto il dottorato.

Non è quindi la cultura che ci può salvare dalla violenza, è la democrazia, o meglio, la cultura che rende possibile la democrazia. Ce lo ha spiegato bene Zygmunt Bauman: se vogliamo proteggere, far crescere la democrazia, dobbiamo imparare a utilizzare uno degli strumenti più potenti a nostra disposizione per evitare che l’esercizio del potere torni a concentrarsi nelle mani di piccoli gruppi che hanno la possibilità di mettere in moto un meccanismo distruttivo che può travolgere tutti: dobbiamo imparare a difendere il “rumore”, ovvero la discordanza di opinioni.

La voce della nostra coscienza riusciamo ad ascoltarla molto meglio in mezzo al rumore che nasce dal confronto con le opinioni altrui, piuttosto che nel silenzio del conformismo.

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