Botta e risposta sul filo dei ricordi e dell'ironia al cinema Modernissimo di Bologna
Metti una sera all’ora di cena dietro al tavolone del cinema Modernissimo di Bologna. Marco Bellocchio e Sergio Castellitto, i due “presidenti”: Cineteca di Bologna il primo (“da 13 anni? Ho chiesto più volte di dimettermi”), Centro Sperimentale di Cinematografia il secondo da nemmeno un anno (“non voglio morire manager”). Entrambi si scherniscono con un “ma non contiamo niente”. Che poi per Bellocchio è anche vero, perché per statuto tutto fa e disfa il direttore Farinelli (in mezzo ai due a far da moderatore) disarcionato a sua volta dalla presidenza della Festa di Roma poco prima della splendida cornice del Cinema Ritrovato 2024 che offre sala, restauri e dibattito.
Insomma, Biden e Trump gli lustrano le scarpe a questi tre presidenti. Ed è comunque un’idea curiosa quella di mettere in cattedra questa ricca, anticonvenzionale strana coppia: il piacentino che negli anni sessanta iniziò da sperimentale incendiario e oggi da 84enne funge da sornione e apparente pompiere; l’istrionico attore romano che con disinvolta classe e genuina passionalità è stato davanti e dietro la macchina da presa per oltre quarant’anni. “Ho fatto due film e mezzo con Marco”, attacca Castellitto. “Il mezzo fu quando doppiai Lou Castel in Gli occhi, la bocca (1982, ndr). Castel mi aveva quasi minacciato fisicamente: “tu devi assolutamente rifiutarti di doppiarmi”. Bellocchio: “Lou ha una bella voce, ma aveva dei ritmi tutti suoi, come se facesse i film al rallentatore”.
Ad ogni modo l’incontro tra i due, con Bellocchio regista e Castellitto attore avviene per L’ora di religione (2002). “Marco mi propose di leggere il copione del film e rimasi folgorato soprattutto dal fatto che non avevo capito nulla”, pausa surreale alla Castellitto. “Per dire: nella sceneggiatura, nel pieno di una scena dialogata e drammatica, Marco scrive: “Ne parlerò con lo scenografo”, chiosa l’attore. “Ne L‘ora di religione il personaggio di Sergio sono io”, si accoda Bellocchio. “I fratelli alla ricerca della santificazione della madre vorrebbero che quel povero pazzo del fratello Egidio (Donato Placido ndr) che aveva ammazzato la madre si pentisse e aggiungesse dettagli per spingere la beatificazione. Nello script c’era scritto che quando i tre raggiungevano la clinica dov’era ricoverato l’uomo, questi doveva bestemmiare. Prima di girare la scena ero titubante, poi la girai, anche se quello che diede una grande potenza emotiva fu sì la doppia bestemmia di Egidio ma anche il movimento del personaggio di Sergio, inventato istintivamente da lui perché capì da attore che in questa disperazione poteva fare una sola cosa: abbracciare il fratello bestemmiatore”. “Anche in Il regista di matrimoni abbozzai un movimento che poi rimase”, continua Castellitto.
“Dovevo entrare nella villa dei mostri circondato da tre rotweiller. Ero terrorizzato, ma da dietro il monitor sentivo le risate di Bellocchio. L’addestratore, ovvero il canaro, mi aveva messo in mano, pensando che potesse proteggermi, dei croccantini”- pausa surreale castellittiana – “tant’è che decisi istintivamente di sedermi a terra terrorizzato”.
E qui si apre il capitolo di Bellocchio attore mancato. “Il mio mito da imitare era Marlon Brando in Fronte del Porto”, spiazza il regista di Bobbio. “Feci prima l’Accademia dei filodrammatici a Milano, ma in quegli anni avevo perso la voce, proprio non riuscivo a parlare. Poi a Roma, al Centro Sperimentale mi dissero di provare a diplomarmi come attore tanto i film venivano doppiati. In commissione c’erano Orazio Costa e Camilleri. Fui ammesso, ma fu Camilleri a dirmi: lascia perdere, vai dietro la macchina da presa. L’anno dopo passai alla regia. Mi diplomai con 26/30 (“nemmeno la lode?”, lo interpella Castellitto): arrivai secondo, primo arrivò Silvano Agosti”.
Apri la valigia dell’attore e Castellitto diventa un tornado: “Non potei diplomarmi in Accademia come attore per limiti di età. Lavorai due anni in un’azienda che distribuiva giornali, poi intrapresi comunque quella strada. Fu una reazione, un vetro quando sei ragazzo lo vuoi spaccare. Non provengo da una famiglia con pedigree artistico e quando a cena seduto ad un lungo tavolo in mezzo alla mia ampia famiglia dissi che avrei lasciato il lavoro per fare l’attore, dal fondo della tavolo uno dei miei fratelli chiese all’altro: ‘cos’ha detto? vuol fare il dottore?’. Io ripetei: ‘no l’attore’ e calò il gelo”.
Poi ancora sul mestiere: “La performance dell’attore è insopportabile. Chi ha coscienza del suo mestiere, deve pensare alla capacità di essere lui stesso penna. Io mi ritengo un narratore di storie dentro un progetto poetico di Bellocchio, Amelio, ecc… C’è l’attore par excellence come Marcello Mastroianni, sigaretta, caffè e recitazione; poi il pensiero a volte tormentato, faticoso, di un Gian Maria Volonté”. “Marcello entrava in scena e, come mi disse Michele Placido per un complimento che gli fece Vittorio Gassman, non recitava, parlava”, chiude Bellocchio.
E così si arriva alla regia, alla confezione, al pacco regalo per lo spettatore: il film. “Gli studenti del CSC concepiscono il cinema da Tarantino in su e gli suggerisco che il cinema se lo detesti lo fai pure meglio”. Mentre Bellocchio è ossessionato dal montaggio (la sua montatrice e compagna è Francesca Calvelli ndr): “Il montaggio è legato a qualcosa di psichiatrico. Il montare è un lavoro contro la dissociazione. È qualcosa di misterioso e angoscioso. Vediamo tanti montaggi superficiali, veloci, vuoti”. Poi quando il regista del Traditore prova a chiudere la frase “montare, mettere insieme le cose girate è come…” e non gli viene la parola, ci pensa Castellitto: “è come una violenza”.