La faccia è scura, ma Giorgia Meloni, appena uscita dal Consiglio Ue di giovedì notte, ostenta fermezza: “Le persone mi rispettano in Italia, ma anche all’estero, perché non ho una doppia faccia“. La presidente del Consiglio spiega così la decisione di andare allo scontro con i partiti europei della cosiddetta maggioranza Ursula. Ma la sua posizione è stata tutt’altro che ferma: si è opposta alle candidature di Antonio Costa come presidente del Consiglio Ue e di Kaja Kallas Alto rappresentante per la Politica Estera, ma ha mostrato ambiguità su Ursula von der Leyen, astenendosi sulla sua riconferma a capo della Commissione. Una mossa che rimane a metà tra gli interessi italiani e quelli del suo partito europeo, i Conservatori, ma che alla fine scontenta tutti, rischia di isolare la premier e di rivelarsi un suicidio politico. Una non-scelta che rischia di farle perdere la faccia a livello internazionale.
La mossa lose-lose
Niente è ancora scritto fino al 18 luglio, quando il nome di Ursula von der Leyen sarà sottoposto all’approvazione del Parlamento europeo, ma sembra difficile che l’immagine di Giorgia Meloni in Europa possa essere riabilitata in così poco tempo. In questo Consiglio Ue la premier era chiamata a decidere definitivamente cosa voleva diventare da grande: giocare tra i ‘grandi’ dell’Ue dove, anche attraverso lo scontro, si decidono le sorti dell’Europa confrontandosi con la potenza dell’asse franco-tedesco, oppure rimanere nel gruppo delle opposizioni di destra, con un ruolo di primo piano ma senza la possibilità di incidere sui programmi. E ha preso la scelta peggiore: quella di non scegliere. È rimasta a metà strada mentre il compagno di partito, il ceco Petr Fiala, dava sostegno pieno alla squadra di nomi proposti dai tre partiti di maggioranza. A questo si aggiunge che gran parte dei Conservatori, con i polacchi del Pis in testa, sono invece pronti a farle guerra in caso di cedimenti.
Il ‘tradimento’ che non le sarà perdonato
Così, oltre a non ritagliarsi il suo posto al tavolo che conta, Giorgia Meloni non ha nemmeno mantenuto un ruolo di spicco a destra, dove Marine Le Pen rimane il punto di riferimento degli ultranazionalisti e Viktor Orban sta cercando di formare un grande gruppo Visegrad anche spolpando Ecr. Meloni sa di trovarsi in una posizione difficile, come testimoniano le sue dichiarazioni ai giornalisti: “Il ruolo dell’Italia non è accodarsi agli altri. E non sono d’accordo che il voto contrario metta a rischio la nostra posizione nell’Unione. Sarebbe vergognoso se ce la facessero pagare”.
Il rischio, invece, è proprio quello. Manfred Weber e Antonio Tajani, rispettivamente presidente e vicepresidente del Partito Popolare Europeo, le avevano preparato il terreno per un dialogo disteso con le forze di maggioranza. Il premier polacco, Donald Tusk, che pochi giorni prima aveva dichiarato che la maggioranza “c’era anche senza Meloni”, all’entrata del Consiglio Ue aveva invece ritrattato, dicendo di essere stato male interpretato e precisando che l’Italia avrebbe dovuto prendere parte a ogni decisione di alto livello. Lo stesso aveva fatto anche il primo ministro olandese, il liberale Mark Rutte. Sul tavolo c’era l’offerta di un commissario di peso, probabilmente con delega al Bilancio e alla gestione dei fondi del Next Generation Eu, ma non la vicepresidenza come richiesto anche da Tajani. Risultato: Meloni ha deciso che non essere stata interpellata sui nomi per i quattro top jobs era un affronto troppo grande e così ha bocciato Costa e Kallas, astenendosi su von der Leyen. Quest’ultima scelta è stata presa probabilmente con l’idea di andare a contrattare direttamente con la presidente della Commissione in vista del voto del 18 luglio in Parlamento, cercando di far pesare i suoi 24 eurodeputati.
Che la mossa non sia piaciuta ai suoi sostenitori lo dimostra anche il tweet del suo alleato di governo, Antonio Tajani: “Forza Italia voterà Metsola presidente del Parlamento e von der Leyen della Commissione Ue. In sintonia con il Ppe. Molto perplessi su durata della presidenza del Consiglio Ue. A Kaja Kallas chiediamo impegno chiaro su Sud e Medio oriente. Sì all’apertura ai Conservatori. No ai Verdi“.
Ora contano i numeri
La mossa di Meloni, come detto, ha irritato molto gli ambienti della maggioranza, in special modo quelli del Ppe che più di tutti si erano esposti per un suo coinvolgimento, senza che questo le abbia fatto riguadagnare consensi a destra. Una mossa meno drastica per cercare di tenere insieme le due esigenze sarebbe stata quella di votare a favore di Ursula von der Leyen, motivando la scelta con il rispetto istituzionale della prassi dello Spitzenkandidat, esprimendo comunque parere contrario alle candidature di Costa e Kallas in quanto non contrattate direttamente. Questo avrebbe garantito rapporti meno conflittuali con la maggioranza, un dialogo più sereno con von der Leyen in vista del 18 luglio e, infine, avrebbe eliminato l’imbarazzo di votare a favore della presidente a Strasburgo.
Così, invece, Meloni ha scelto di contrattare con la leader di Palazzo Berlaymont in un clima di tensione generale e sperare che i numeri rimangano dalla sua parte. Per capirlo, serve fare i conti. La maggioranza è composta da Popolari, Liberali e Renew che, in totale, valgono 399 seggi sui 361 necessari per ottenere la maggioranza. A questi vanno aggiunti i 3 seggi del Partito Democratico Civico del premier ceco Fiala e il seggio dei Veri Finlandesi. Così, lo scarto sarebbe di 42 seggi. Una maggioranza risicata che lo è ancora di più se si considera che vanno tolti i 6 seggi dei Repubblicani francesi, che da subito si sono opposti alla ricandidatura di von der Leyen, i 4 del Partito Democratico Sloveno di Janez Janša e anche i 2 seggi del Movimento Civico-Contadino olandese. Così, la maggioranza si reggerebbe su soli 391 voti, con un margine di soli 30 seggi. Troppo pochi per stare tranquilli, dato che un 10% di franchi tiratori è necessario considerarlo e che nel 2019 von der Leyen passò nonostante se ne contassero un centinaio.
In una situazione del genere, i voti di Meloni sarebbero troppo importanti per iniziare una guerra con la presidente del Consiglio italiana, così è probabile che le richieste dell’Italia verrebbero accolte. Ma resta l’incognita dei Verdi: Socialisti e liberali di Renew, oltre a una parte del Ppe, vedrebbe favorevolmente un appoggio da sinistra e la mossa di Meloni potrebbe legittimare la loro posizione. Quei 54 seggi, di cui 16, quelli dei tedeschi al governo con Olaf Scholz, sarebbero da considerare sicuri, renderebbero il supporto di Meloni superfluo e condannerebbero l’Italia all’irrilevanza all’interno della prossima Commissione, con Meloni definitivamente marginalizzata.
Comunque vada, sarà imbarazzante
Meloni, come detto, deve sperare di rimanere una pedina fondamentale. In ogni caso, gli scenari possibili sono tre, ma tutti prevedono che la premier italiana debba giustificare la propria scelta. Il primo è quello più favorevole, con Fratelli d’Italia determinante per la maggioranza e von der Leyen che concede a Meloni un commissario di peso. Con il voto favorevole in Parlamento, però, la leader di FdI, oltre a perdere appoggio a destra, dovrebbe spiegare il perché del cambio di posizione, magari ottenendo concessioni extra. Il secondo scenario è quello di una nuova astensione che, però, sarebbe vissuta dalla destra come debolezza e dalla ‘maggioranza Ursula’ come un nuovo tradimento: la sua elezione avviene infatti a maggioranza dei membri che compongono il Parlamento Ue, così non esprimersi equivale a dare un voto contrario. Questo relegherebbe l’Italia in una posizione secondaria all’interno della prossima Commissione, creerebbe una rottura interna alla maggioranza italiana e minerebbe la credibilità internazionale del governo Meloni. Il terzo scenario è quello di un voto contrario in Parlamento che equivarrebbe a una presa di posizione decisa contro queste nomine che escluderebbe definitivamente Meloni dai tavoli di maggioranza.
Qualunque sia la mossa della premier italiana, di certo c’è che l’affidabilità dell’Italia è già stata in parte compromessa. Anche in caso di accordo, rispetto a qualche giorno fa sarà più difficile, ad esempio, convincere i singoli commissari ad accettare funzionari e capi di gabinetto italiani nella loro squadra. Questo indebolirebbe le capacità di influenza di Roma nelle decisioni della Commissione sui vari dossier. Il passo indietro di Meloni, comunque vada a finire, è quindi già stato compiuto. Serviranno del tempo per recuperare terreno nel processo per accreditarsi agli occhi delle istituzioni europee.