Si parla di crisi abitativa in questi giorni. Lo si fa, però, a partire da approcci spesso astratti. Se mettiamo i piedi nella vita reale, la crisi abitativa ci sarà più chiara.

Partiamo da Carla.
Una lavoratrice delle pulizie. Stipendio di 700€ al mese. Una miseria, ma lavora con un part-time involontario e una paga ben al di sotto di quei 10€ l’ora di cui tanto avremmo bisogno come salario minimo.

Carla riesce a pagare un affitto – nel Paese in cui tutti siamo proprietari di casa, 1 persona su 5 vive in realtà in affitto e la percentuale cresce tra il 20% più povero della popolazione: in questa fascia quasi una persona su due è inquilino (40%). Con mille sacrifici, anche perché in Italia il prezzo degli affitti cresce più del già alto livello di inflazione (+14,2% nelle grandi città tra 2022 e 2023, dati Cresme). Carla fa mille sacrifici, si spezza la schiena sul lavoro. Riesce a pagare il “pigione”.

Un giorno, però, viene licenziata. Non riesce più a pagare le spese per la casa. Viene sfrattata. Come succede a migliaia di persone ogni anno in questo Paese.
153 sfratti al giorno, più di 50mila all’anno. E in 9 casi su 10 è per morosità incolpevole. Significa che gli inquilini non possono più permettersi l’affitto, magari perché sono stati licenziati, non gli è stato rinnovato il contratto, gli sono state tagliate le ore di lavoro.

Di questo hanno paura tante persone che un tetto ce l’hanno: di essere buttati fuori dalla banca, perché magari non si riesce più, dopo anni, a sostenere un mutuo; o di essere sfrattati dal proprietario perché non si è più in grado di pagare l’affitto. A queste persone lo Stato volta la faccia. Ancor di più da quando il ministro Salvini negli ultimi due anni ha deciso di tagliare il fondo per il sostegno all’affitto e la morosità incolpevole che aiutava chi era in difficoltà a pagare l’affitto.

Carla, a quel punto, è letteralmente in mezzo a una strada. È iscritta alle graduatorie per le case popolari. Ma le case popolari in questo Paese sono pochissime, anche perché l’ultimo vero piano casa risale addirittura al 1962: il piano INA-CASA promosso da un nome che si legge oggi sui libri di storia: Amintore Fanfani. Così in Italia abbiamo solo 4 alloggi popolari ogni 100 abitazioni.

Quante sono in Francia? 17 su 100. E nel Regno Unito? 18 su 100. Dagli anni ‘90 a oggi ne abbiamo vendute 200mila, parte di un patrimonio che già non era ingente. Privatizzare è bello, dicevano. Per i palazzinari, non certo per i lavoratori e le lavoratrici.

E c’è di più: perché molte delle case popolari che abbiamo sono sfitte, inutilizzate. Federcasa e Bocconi ne stimano 100mila in tutta Italia. Circa 15mila a Milano e provincia, 2mila a Venezia e così via. Case popolari vuote e inutilizzate perché spesso manca la minima manutenzione. Perché lo Stato non investe in case popolari, preferendo finanziare i privati.
Carla in graduatoria c’è. Come 650mila persone (dato Sunia, 5 aprile 2024) che però sono in attesa che lo Stato si degni di rispettare quello che è un loro semplice e sacrosanto diritto, l’accesso a una casa popolare.

Quanto occorre per ottenere quello che è un diritto e cioè entrare in una casa popolare? Anni. E a volte non bastano. Nel 2022 nella civile Toscana solo 1 su 18 dei 17.500 aventi diritto è riuscito a ottenere l’accesso a un alloggio popolare. In Lombardia 1 su 14.

Carla non è stata tra questi fortunati. Sfrattata, senza possibilità di accedere a una casa popolare, davanti a lei aveva solo due alternative. Sotto a un ponte o a occupare, insieme ai movimenti di lotta per la casa, un appartamento sfitto. Perché i Movimenti di lotta per la casa non occupano case già abitate o già assegnate: entrano, invece, in edifici sfitti da anni, tenuti spesso artificiosamente vuoti perché qualcuno deve speculare sul mercato immobiliare.

Carla ha fatto questa seconda scelta.

Chi dice “non l’avrei mai fatto” – come ha dichiarato anche Bonelli dei Verdi, probabilmente non è mai stato messo di fronte al dilemma delle troppe Carla di questo Paese. L’insicurezza di troppa parte del Paese.

I movimenti di lotta per la casa da decenni chiedono un tetto al prezzo degli affitti, riconoscendo il fallimento della liberalizzazione spinta dalla legge 431/1998 voluta dal centro-sinistra; nuove case popolari (ASIA USB ne chiede un milione, rigenerando proprietà già esistenti, senza ulteriore consumo di suolo); l’abrogazione della Legge Renzi-Lupi del 2014, che ha criminalizzato gli occupanti (art. 5), avviando nuove dismissioni (art. 3) e non mettendo a disposizione nemmeno un alloggio in più al patrimonio pubblico; la mappatura degli immobili e limiti temporali e di spazio per gli alloggi turistici, per gli affitti brevi; misure fiscali che disincentivino la rendita parassitaria, tassando la proprietà inutilizzata; l’applicazione dell’articolo 42 della Costituzione e dell’articolo 835 del codice civile (come chiede al Comune di Torino la campagna “Vuoti a rendere”) che prevedono la possibilità di espropriare la grande proprietà parassitaria per garantire che la proprietà privata svolga una funzione sociale – in questo caso garantire un tetto – e non abbia un mero scopo speculativo.

Per la classe politica è più facile dare addosso agli occupanti, come se l’assenza di case abitabili fosse responsabilità loro, o scandagliare la vita di Ilaria Salis, piuttosto che dare risposte concrete alle esigenze di milioni di uomini e donne di questo Paese.

P.S.: Esiste un problema di criminalità organizzata che caccia violentemente le persone dalle case loro assegnate secondo la legge. Che magari nei quartieri popolari, oggi turistici, delle nostre città le usa poi a uso ricettivo e per poterci lucrare. O per fare posto a persone loro vicine. Il pugno duro, durissimo, andrebbe usato contro questi delinquenti, non contro i movimenti di lotta per la casa, che sono di tutt’altra pasta.

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