La Turchia ha intensificato la presenza militare nella regione semi autonoma del Kurdistan iracheno, segnalando una potenziale escalation nel conflitto di lunga data con il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) di Ocalan, secondo quanto riportato dai media filo-governativi e filo-curdi. Yeni Şafak, il giornale turco più allineato, ha sottolineato che ci sono preparativi in corso per un attacco contro l’aeroporto internazionale di Sulaymaniyah, una risorsa significativa per l’intera regione semi autonoma. Secondo il quotidiano, l’aeroporto è diventato un “centro logistico” per il PKK, utilizzato sia dagli Stati Uniti che dall’Iran per fornire armi all’organizzazione i cui guerriglieri sono riparati in massa dal 2014 specialmente sulle montagne del Kurdistan iracheno, al confine con la Turchia. Se la Turchia rileva un’altra consegna di armi, colpirà dunque l’aeroporto. Ankara cerca da tempo di convincere la fazione Talabani, che controlla Sulaymaniyah, a limitare le attività del PKK in città.
Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, due mesi fa, nella sua visita di Stato – a dieci anni dall’ultima – alle autorità governative centrali dell’Iraq, era riuscito a convincerle ad approvare la messa al bando del Pkk di Ocalan dopo essere riuscito a convincere il clan Barzani a fare altrettanto.
La regione semi autonoma del Kurdistan iracheno – la più ricca di gas e petrolio pregiato dell’intero Iraq – è da decenni governata da due clan curdi rivali che si spartiscono il potere e, di conseguenza, i proventi della vendita di combustibile: il filo-turco Barzani che guida la “capitale” Erbil con tutta la zona occidentale e la tribù Talabani che ha il controllo della zona orientale, con capoluogo la città di Sulaymaniyah, al confine con l’Iran con cui ha stretti rapporti commerciali – sottobanco – specialmente in ambito energetico. L’Iran, vale la pena ricordarlo, possiede enormi giacimenti che però sono zeppi di petrolio di bassa qualità. Non avendo le infrastrutture per raffinarlo, il regime iraniano lo vende al clan Talabani in cambio di quello naturalmente già sfruttabile estratto in Kurdistan. Il clan Barzani invece vende gas e petrolio alla Turchia che ne è del tutto priva.
Pochi giorni fa il notiziario con sede in Kurdistan, Rojnews, ha pubblicato immagini che mostrano presumibilmente un nuovo dispiegamento di truppe turche nella regione. Il giornalista curdo Erdal Er, commentando gli sviluppi tramite il suo canale YouTube, ha interpretato questi movimenti come “un segno di una guerra molto più grande che verrà“. Ha anche affermato che le aree civili su entrambi i lati del confine sono già interessate da questi preparativi militari che impongono “sfollamenti interni e migrazioni all’estero”.
Il giornalista ha suggerito che l’aggravarsi e l’estendersi della guerra, con Sulaymaniyah che diventa un obiettivo, è dovuto al tentativo di bilanciare la superiorità aerea nelle operazioni meridionali della Turchia, quell’area con capoluogo Diyarbakir dove origina il Pkk e vive da sempre la maggior parte del popolo curdo. “Finora i turchi avevano un vantaggio o credevano di averlo nella guerra contro il movimento di libertà curdo. Usavano droni e UAV armati ottenuti o trasferiti da Paesi europei, dagli Stati Uniti e dalla Nato. Uccidevano, sparavano missili contro individui come se sparassero proiettili… Poi anche la guerriglia ha acquisito la tecnologia per abbattere gli UAV”. L’equilibrio nella guerra è cambiato: l’era del gioco unilaterale ha sconvolto i calcoli di Ankara. “Poiché il governo di Erdogan ha legato il proprio destino alla continuazione e addirittura alla vittoria di questa guerra, non hanno altra storia”, ha spiegato Er.
A marzo, il PKK ha annunciato di aver acquisito armi per contrastare i droni turchi, pubblicando filmati che presumibilmente mostravano l’abbattimento degli UCAV. Sebbene il gruppo militante non abbia specificato le armi utilizzate, diversi rapporti suggeriscono che potrebbero essere droni kamikaze di fabbricazione iraniana.
Dal 2019, la Turchia ha condotto una serie di operazioni militari contro il PKK nel nord dell’Iraq, note collettivamente come operazioni “Claw” (artiglio) attraverso una combinazione di presenza militare permanente con attacchi e raid più precisi in coordinamento politico con il governo regionale del Kurdistan (KRG), più precisamente con i peshmerga del clan Barzani che esprime il primo ministro. Questa presenza è sostenuta dalla sorveglianza continua e dagli attacchi dei droni, con circa 5.000-10.000 soldati turchi sul terreno in quasi tre dozzine di siti, secondo una valutazione della Jamestown.
Insomma la Turchia vuole “la pace” nel mondo a giorni alterni.