Gli effetti dell’assalto a Capitol Hill continuano a farsi sentire a quasi 4 anni di distanza, anche nella campagna per le presidenziali di novembre. Per la Corte Suprema degli Stati Uniti non ci sono le prove che i sostenitori di Donald Tump che attaccarono il Congresso il 6 gennaio 2021 abbiano effettivamente ostacolato i lavori del Congresso. I giudici hanno limitato i confini dell’accusa di “ostruzione di un procedimento ufficiale” per uno degli assalitori con una sentenza che potrebbe influire sui processi in corso a centinaia di persone che hanno assaltato il Congresso contro l’elezione di Joe Biden nel 2020. Ora contestare l’accusa, mossa anche al candidato repubblicano, diventerà più difficile.

Il caso “Fischer vs. United States” nasce dall’arresto di un ex agente di polizia, Joseph Fischer, per il suo coinvolgimento nel tentativo di insurrezione del 6 gennaio. Secondo gli atti del tribunale, Fischer era nella prima ondata di persone che hanno forzato le porte della Rotonda Est del Campidoglio, gridando “Carica!” e si era fatto largo tra la folla per entrare nell’edificio. Nel caos che ne è seguito Fischer avrebbe aggredito almeno un poliziotto, che nella colluttazione è finito a terra. Per questo l’uomo è stato incriminato dopo essere stato riconosciuto in un video su Facebook e ha dovuto affrontare 7 accuse penali, tra cui quella di ostruzione a un procedimento del Congresso. La legge al centro del caso è la 18 USC § 1512(c)(2), che rende un crimine “ostacolare, influenzare o impedire in altro modo qualsiasi procedimento ufficiale“.

La sentenza, passata con 6 voti favorevoli e 3 contrari, è stata firmata dal giudice capo della Corte, John Roberts, e ha avuto il parere contrario di due magistrate di nomina democratica, Sonia Sotomayor e Elena Kagan, e di una nominata da Trump, Amy Coney Barrett. Con essa la Corte ha stabilito che i procuratori federali hanno impropriamente accusato Fisher e altre centinaia di persone di aver ostacolato un procedimento ufficiale, infliggendo un colpo all’impianto accusatorio. Secondo i giudici, il governo deve dimostrare che l’imputato abbia “reso impossibile la disponibilità o l’integrità” di documenti ed altri elementi del procedimento ufficiale. Cosa che, secondo la Corte, non è stata fatta con oltre 350 persone mandate a processo dopo l’enorme di distruzione di documenti e prove sul crollo del colosso energetico Enron nel 2001 e accusate del reato che in caso di condanna prevede fino a 20 anni di carcere.

Al centro della sentenza c’è una lettura restrittiva del reato, che “proibisce l’ostruzione delle indagini e delle indagini del Congresso”. La legge che lo punisce è stata promulgata nel 2002 sulla scia dello scandalo Enron e prevede che ostacolare un procedimento ufficiale, come la certificazione di un’elezione, include un atto che “altera, distrugge, mutila o nasconde un verbale, un documento o un altro oggetto”. Fischer ha contestato l’accusa, sostenendo che la legge non dovrebbe applicarsi al suo caso perché si applica specificamente alla manomissione di verbali, documenti, oggetti o altre prove. Nel marzo 2022 un giudice distrettuale gli ha dato ragione, ma la Corte d’appello del distretto di Columbia ha annullato la sentenza e ha ribadito le accuse nell’aprile 2023 , preparando il terreno per l’intervento della Corte Suprema.

Nella decisione il presidente Roberts ha scritto che per dimostrare la violazione “il Governo deve dimostrare che l’imputato ha compromesso la disponibilità o l’integrità per utilizzo in un procedimento ufficiale di atti, documenti, oggetti o (…) altre cose utilizzate nel procedimento o tentato di farlo.” Roberts ha continuato spiegando che, secondo la Corte, se dovessero dare una lettura ampia dello statuto in questione, come sostengono gli avvocati del governo, “quella nuova interpretazione criminalizzerebbe un’ampia fascia di condotte, esponendo attivisti e lobbisti a decenni di prigione”. Così ora il caso torna ora al tribunale distrettuale, che deve determinare come applicare la legge sull’ostruzione in modo tale da conformarsi alla decisione della Corte Suprema.

Non è ancora chiaro in che modo la sentenza si rifletterà sulla posizione di Donald Trump. L’ex presidente è accusato di aver “ingannato gli Stati Uniti” ostacolando il processo elettorale, per “aver impedito il procedimento congressuale del 6 gennaio in cui dovevano essere conteggiati e certificati i risultati frutto delle elezioni presidenziali” e aver cospirato “contro il diritto di voto e il conteggio di quel voto“. Il tycoon si è dichiarato non colpevole, sostenendo che le accuse sono di natura politica e sono state architettate dai suoi oppositori per impedire il suo tentativo di tornare alla Casa Bianca.

“Sarà molto più difficile sostenere che Trump ha compromesso un procedimento ufficiale se l’accusa dovrà anche dimostrare che ciò è correlato alla distruzione o all’alterazione, o ad attività correlate, di documenti”, ha spiegato al Guardian Derek Muller, professore di legge presso l’Università di Notre Dame. Su questa e le altre accuse l’ex presidente ha invocato l’immunità presidenziale e la Corte Suprema si pronuncerà lunedì.

Venerdì la stessa Corte ha respinto l’appello urgente presentato da Steve Bannon per rinviare la pena carceraria a 4 mesi, dopo la condanna di oltraggio al Congresso. L’ex capo stratega di Trump, condannato nel 2022 per essersi rifiutato di collaborare con la commissione (ora dissolta) della Camera dei rappresentanti che indagava sull’assalto al Congresso, aveva fatto appello alla massima Corte Usa affinché rinviasse l’ingresso in carcere, in attesa dell’esito degli appelli nei tribunali di grado inferiore. Lunedì Bannon dovrà presentarsi in carcere a Washington.

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