Se per le università italiane il codice etico è carta obbligatoria già dal 2011, lo stesso non può dirsi nel caso delle aziende private. Ciò nondimeno, più un’impresa cresce e maggiore è l’importanza di averne uno a cui conformare i comportamenti di tutti i soggetti coinvolti nelle attività aziendali. Anche le major discografiche perciò hanno un codice etico a cui adattare il comportamento di dipendenti e collaboratori, tra i cui principi però uno in particolare sembra confliggere con buona parte della musica dalle stesse pubblicata, quello che vieta “(…) tutti i comportamenti che, direttamente o indirettamente, costituiscono manifestazione di discriminazione per ragioni di sesso, idee politiche, origine etnica, credo religioso, condizioni economiche e sociali. Non sono tollerate molestie in qualsiasi forma a sfondo sessuale, razziale, religioso o politico così come qualsiasi altro comportamento lesivo della dignità della persona”. Principio, come da Treccani, a cui devono attenersi tutti i partecipanti all’attività lavorativa, dipendenti cioè e collaboratori.

E gli artisti? Anche loro, debitamente contrattualizzati, partecipano per definizione all’attività lavorativa delle case discografiche, anzi, ne sono il cuore pulsante: è sui loro prodotti, non altro, che l’azienda crea il proprio giro d’affari. Perciò ho chiesto all’ufficio stampa di una delle major che operano in Italia come la stessa si ponga nei confronti dei testi, da più parti ritenuti discriminatori e offensivi, di diverse delle canzoni pubblicate sotto i propri marchi. Risposta: “Con l’affermazione del divieto di discriminazioni, l’azienda favorisce la cultura del rispetto dei diritti fondamentali della persona. Questo è il compito che ci siamo assegnati e che cerchiamo di svolgere al meglio nell’ambito delle nostre competenze che non sono e non possono essere censorie. Le opere musicali in quanto prodotto dell’espressione creativa e dell’immaginazione dell’artista vanno tutelate e non devono essere strumentalizzate; non dobbiamo cadere nell’errore di confondere la realtà con la finzione narrativa”.

Faccio subito chiarezza: quando un editore non pubblica il prodotto di un autore non esercita censura, ma legittima, libera e insindacabile scelta editoriale. In altri termini, qualsiasi editore, assumendosene la responsabilità, sceglie cosa pubblicare e cosa no: la censura non c’entra nulla, e a dimostrarlo vi è la lista, alquanto lunga, di canzoni o interi album, anche di artisti ultra affermati, rifiutati dalle etichette discografiche per i più svariati motivi. Fatta questa debita premessa, mi pongo un’altra domanda, e cioè se l’opera musicale, come qualsiasi altra opera frutto dell’espressione e della creatività, sia o meno a prescindere degna di tutela, perché se così fosse non potrebbe, contrariamente a ciò che molti affermano, rappresentare possibile motivo di discriminazione, offesa o molestie di vario tipo.

Esiste a riguardo un precedente giuridico, una sentenza della Suprema Corte di Cassazione che, nel caso di un monologo televisivo e pronunciandosi per la prima volta sulla diffamazione mediante opera artistica, aveva ritenuto legittimo lo stesso tutelandone dunque l’autore e l’editore (la Rai). Nel caso di specie e in terzo grado di giudizio (la Corte d’appello aveva invece condannato artista e editore al risarcimento della parte lesa) l’opera d’arte era stata dunque tutelata: perché vi sia offesa, argomentava la Cassazione, occorre accertare che la stessa “(…) sia arrecata al di fuori di ogni sforzo creativo e che l’espressione sia percepita dal fruitore (lettore o spettatore) come vera e, dunque, offensiva della dignità, dell’onore e della reputazione altrui”.

Due, dunque, le condizioni indicate dalla Suprema Corte perché l’espressione sia ritenuta offensiva della dignità altrui: la stessa, innanzitutto, occorre che sia percepita come vera, e a giudicare dalla mole di proteste giunte da ogni dove all’indirizzo di artisti e case discografiche, la percepita veridicità dovrebbe risultare alquanto evidente; in più, come chiaramente traduce lo studio legale Dandi, “la frase o l’immagine offensiva, per essere illecita, deve risultare da un atto o da un supporto non qualificabile opera artistica”, la qual cosa sembrerebbe porre in essere una sorta di zona franca, nello specifico quella musicale, in cui tutto, ogni genere di percepita lesione all’onore e alla dignità altrui, sarebbe possibile.

È storytelling, affermano i discografici. Ma quel che qui, in conclusione, preme ricordare, è che ogni editore è pienamente responsabile di ciò che pubblica: paventare la censura equivale solo a sfuggire dalle proprie responsabilità editoriali.

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