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Estradato in Ungheria il 23enne tedesco Maja T., accusato di lesioni a militanti neonazisti durante un raduno a Budapest nel 2023

Il cittadino tedesco Maja T. (cognome omesso vista la condanna non definitiva) che era stato arrestato a Berlino nel dicembre dell’anno scorso con l’accusa di lesioni pericolose a militanti neonazisti a Budapest in occasione di un loro raduno l’11 febbraio 2023 è stato estradato alle prime ore del mattino. Il tribunale di Berlino ne aveva deciso appena ieri, nonostante le prese di posizione contrarie di diverse Associazioni dello spettro della sinistra, la consegna al Paese di Viktor Orban. Katharina König-Preuss, rappresentante del gruppo dei die Linke nel parlamento della Turingia, accusa le autorità statali perché “le persone queer subiscono forti repressioni in Ungheria”.

Secondo quanto riportato dall’emittente pubblica ARD, i poliziotti tedeschi – la squadra della polizia criminale della Sassonia specializzata per l’estrema sinistra è la “Soko LinX” – hanno prelevato il ventitreenne dal carcere quasi all’alba, attorno alle 3,30, per consegnarlo alle 6,50 ai funzionari austriaci col compito di condurlo in Ungheria. Una fretta in aperto contrasto con la tradizione della Repubblica Federale Tedesca che è di solito restia ad estradare i proprio cittadini. Non lo ha fatto quasi mai, e neppure per gli ex militari accusati di eccidi durante il nazismo in Italia.

Un ricorso alla Corte costituzionale del difensore Sven Richwin depositato alle 7,38 non ha potuto frenare la procedura. I giudici hanno deciso in via d’urgenza verso le 10,50 che Maja T. debba essere portato indietro e ingiunto alla Procura Generale di Berlino di adoperarsi per recuperarlo, ma secondo gli inquirenti Maja T. alle 10 era già in Ungheria. L’estradizione avrebbe infatti dovuto essere sospesa fino alla decisione sul ricorso costituzionale presentato della difesa; questo anche se la sospensione è temporanea, per sole sei settimane, entro le quali la Corte costituzionale deve decidere sulla fondatezza del ricorso.

La Procura generale aveva emesso nei confronti di Maja T. un mandato di arresto a fine marzo, accusandolo di far parte di un’organizzazione criminale di estrema sinistra. Anche i giudici costituzionali presuppongono che faccia parte del gruppo che mirava ad “usare la violenza contro membri dello spettro politico di destra” in Ungheria e l’indagine del Procuratore generale non avrebbe di per sé impedito la consegna del sospettato alle autorità ungheresi. La Procura generale di Berlino ha indicato infatti alla ARD che l’estradizione risponde alla prassi dei mandati europei e l’Ungheria ha assicurato di garantire condizioni detentive adeguate e, dopo il processo, di riconsegnare l’imputato alla Germania per fargli scontare la pena. Secondo Richwin, invece, come antifascista non può contare su un processo equo nel Paese di Orban e, in quanto persona non binaria, avere condizioni carcerarie che garantiscano i suoi diritti.

A Dresda nel maggio scorso è stata condannata per le stesse imputazioni la studentessa Lina E. di Lipsia, ma la sentenza in questo caso non è ancora passata in giudicato. Anche la trentanovenne italiana Ilaria Salis era stata accusata di aver partecipato alle aggressioni di neonazisti che avevano preso parte al “Giorno dell’Onore” ed era stata arrestata in Ungheria e detenuta in condizioni da lei denunciate come “inumane”, prima di essere rilasciata agli arresti domiciliari e fruire adesso dell’immunità quale eurodeputata eletta con Alleanza Verdi Sinistra.

Molti altri tedeschi sospettati di aver fatto parte del gruppo si sono invece resi irreperibili proprio per evitare l’espulsione ed il processo in Ungheria dove rischiano pene più pesanti e le condizioni carcerarie sono peggiori. La sezione ungherese dell’organizzazione “Helsinki Committee for Human Rights” critica, tra l’altro, la carenza di assistenza sanitaria dei reclusi. Persino la Corte di Appello di Milano aveva respinto una richiesta di estradizione in Ungheria per il co-indagato con la Salis, Gabriele Marchesi, come riportato dall’ANSA, per la “fondatezza di timori di reali rischi di violazione dei diritti fondamentali”.