“A me è scaduta pure la carta d’identità. Non esco da dieci anni. Provo a fare meno richieste possibili anche sul cibo. Mio padre sta diventando anziano e quando non ci sarà più lui non so chi si prenderà cura di me”. Chi parla conosce il suo problema. I reclusi sociali, quelli che per sintetizzare vengono etichettati come hikikomori, nascondono una galassia di disturbi che sono diversi tra di loro, ma uniti nel rifiuto di sentirsi costantemente giudicati dal mondo, quello che resta fuori dalle loro stanze. Non è solo l’utilizzo dei giochi on-line o dei social, c’è molto altro. Secondo il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara, in Italia a oggi sono circa 50mila i ragazzi e ragazze che vivono una situazione di questo tipo. Arianna Terrinoni, neuropsichiatra che da anni si occupa di giovanissimi, chiede di mettere al centro proprio il corpo degli adolescenti, che deve essere il campo d’indagine per i reclusi sociali e non solo. Quando ci si ritrova al cospetto di queste problematiche il primo punto di riferimento è il pediatra, che consiglia una visita dal neuropsichiatra infantile, che in qualsiasi territorio, ad oggi, ha liste d’attesa lunghissime. L’assistenza psicologica e le terapie in generale restano lontane. I medici consigliano anni di terapia per problematiche simili, però quotidianamente ci si confronta con la mancanza di strutture e con genitori che si ritrovano ad isolarsi come i loro figli. Una madre di una giovane auto reclusa racconta come abbia adattato la propria esistenza per stare vicina alla figlia di tredici anni: “Non c’è assistenza. Lo psichiatra dell’Asl non viene a casa. Devo fare sforzi continui, mi resta la paura che magari un giorno il tribunale me la possa portare via per le assenze che fa a scuola. Non vedo altro nelle istituzioni”.

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