Il tribunale civile di Roma ha condannato la presidenza del Consiglio, i ministeri della Difesa e dei Trasporti, il Capitano della nave Asso 29 e la società armatrice Augusta Offshore al risarcimento del danno di persone che nel 2018 sono state respinte in Libia dal mercantile italiano. La sentenza stabilisce che la nave avrebbe dovuto “condurre i migranti in Italia, non in Libia”, dove sono state esposte a torture, detenzione illegale, violenze di ogni genere e, in alcuni casi, alla morte. Il tribunale ribadisce quanto affermato recentemente da altre corti: la Libia non è un luogo sicuro in cui può concludersi un’operazione di ricerca e soccorso. I condannati dovranno pagare 15 mila euro a ciascuna delle cinque persone titolari del ricorso: due uomini e una coppia con un figlio che ai tempi aveva due anni, mentre la madre era incinta all’ottavo mese.

A Palazzo Chigi sedeva Giuseppe Conte, alla guida del suo primo governo, quello giallo verde. Il 2 luglio 2018 il mercantile Asso 29, coordinato dalla nave militare italiana Duilio, era intervenuto in soccorso di una motovedetta libica in avaria che aveva da poco intercettato un’imbarcazione con circa 150 persone a bordo. Sotto il coordinamento italiano e libico, la Asso 29 aveva ricondotto le 150 persone a Tripoli, dove erano state detenute e torturate nei centri di detenzione di Tarik Al Sikka, Zintan, Tarik Al Matar, Gharyan. Tramite programmi di resettlement, corridoi umanitari o attraversando nuovamente il Mediterraneo, queste persone sono tutte arrivate in Europa dove si sono viste riconoscere la protezione internazionale che il respingimento aveva negato. All’inizio del 2021 hanno deciso di agire in giudizio.

La sentenza che dà loro ragione passa in rassegna i report delle missioni di inchiesta delle Nazioni Unite e di altri organismi internazionali su quanto avviene in Libia. E conclude che la presenza delle autorità di frontiera libiche e l’esistenza di una zona SAR libica “non può far venir meno il rispetto degli obblighi internazionali da parte dello Stato italiano, che ha o comunque avrebbe dovuto avere un controllo di fatto sui migranti” e che quindi avrebbe dovuto “condurre i migranti in Italia, e non in Libia, indipendentemente dalle istruzioni libiche”. Attorno al caso Asso 29 si è mobilitata la società civile italiana: Amnesty International, ASGI e il collegio difensivo composto da Cristina Laura Cecchini, Giulia Crescini, Salvatore Fachile, Alberto Guariso, Lucia Gennari, Loredana Leo e Luca Saltalamacchia. Che avvertono: “Sono numerose le persone sopravvissute a quel respingimento che si trovano ancora in Libia e con le quali stiamo lavorando affinché possano entrare legalmente in Italia e chiedervi protezione”.

La sentenza ribadisce quanto già stabilito altre volte. A febbraio la Cassazione si era definitivamente espressa sul caso del rimorchiatore Asso 28, che, il 30 luglio del 2018, dopo avere soccorso 101 persone nel Mediterraneo centrale li riportò in Libia consegnandoli alle autorità locali. Per la Cassazione questa è una condotta che infrange il Codice della navigazione in tema di “abbandono in stato di pericolo di persone minori o incapaci, e di sbarco e abbandono arbitrario di persone”. Se in quel caso ad essere condannato su il comandante, stavolta, per aver coordinato il respingimento, a pagare sono direttamente anche le massime autorità italiane. Dopo la sentenza su Asso 28, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi commentò ai microfoni del Fatto relegando la sentenza alla situazione della Libia nel 2018. Situazione, assicurava, “che gli investimenti di Italia ed Europa hanno permesso di superare”. Quanto ai casi, già documentati, di coordinamento italiano di operazioni concluse con respingimenti in Libia, Piantedosi negò categoricamente: “Se lei mi trova un caso in cui ci sia stato un coordinamento delle autorità nazionali che poi abbia previsto un trasferimento in Libia di persone…”. Ce ne fosse ancora il bisogno, la sentenza del tribunale di Roma è l’ennesima risposta.

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