Ho letto con particolare interesse la relazione semestrale – gennaio-giugno 2023 – della Dia, sullo stato di Cosa nostra a Palermo. La trovo in linea con le mie considerazioni, soprattutto per quando riguarda l’assenza di leadership, che possa dar slancio ad una direzione verticistica. In buona sostanza, Cosa nostra soffre l’assenza di un capo carismatico, che prenda le redini del gotha mafioso. Di una cosa sono certo: Cosa nostra del secolo scorso non potrà mai più rinascere. Detto questo, consentitemi di ricordare momenti funesti che hanno accompagnato la mia vita di poliziotto alla Mobile palermitana prima e alla Dia dopo.

Ogni tanto ritorno nella mia città natia – Palermo – e rivedo in alcune vie e piazze cadaveri di magistrati, di miei colleghi della polizia di Stato, carabinieri, politici, cittadini inermi e mafiosi. Un passato di dolori, di lacrime, le ultime le ho versate in via D’Amelio. Un periodo colmo di rabbia, perché nessuno e dico nessuno ascoltava il nostro grido di dolore, nonostante le strade di Palermo si colorassero di rosso sangue innocente.

Ripeto per l’ennesima volta, che nei confronti di Pio La Torre, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Chinnici, Falcone e Borsellino, qualcuno sottovalutò gli elementi che avrebbero potuto evitare la loro morte. Ne vogliamo parlare? Se noi non fummo capace di smantellare Cosa nostra non fu per colpa o negligenza nostra: eravamo dei semplici manovali delle investigazioni e per giunta inascoltati.

Qualche giorno fa mi telefona per un affettuoso saluto un alto funzionario della polizia di Stato, anche lui in pensione, ed insieme abbiamo ripercorso i momenti salienti della nostra attività investigativa. Ad un tratto dice – con amarezza – che lo Stato è in debito con tutti voi, agenti e ispettori della Dia, che avete abbandonato affetti familiari e vi siete tuffati a capofitto senza badare a giorni e notti, nel condurre le indagini sulla strage di Capaci. E nessuno, né il ministro dell’Interno, né il Capo dello Stato – tranne il direttore della Dia – sentì il bisogno di dirvi grazie o darvi una pacca sulla spalla, per i successi ottenuti nella individuazione degli autori della strage.

La mia risposta è stata lapidaria: “Il dottor Giovanni Falcone, sua moglie Francesca e i nostri colleghi Antonio, Rocco e Vito meritavano tutto il nostro impegno”. Sono sicuro d’interpretare il pensiero dei colleghi della Mobile e della Dia, quando affermo che a nessuno di noi venne in mente di lavorare per ottenere prebende o encomi: assolutamente no! Ci animava lo spirito di servizio, il senso dello Stato e come ci ricorda Platone col mito di Er -, noi e solo noi fummo gli artefici del nostro destino, tant’è che nessuno di noi abbandonò il campo di battaglia.

Io, ancora oggi, nutro scarsa considerazione verso i politici. Mi spiace, la sfiducia nasce da pregresse esperienze vissute de visu quando da ragazzo, vidi abbracci e baci tra mafiosi e politici. La ritrosia raggiunse il massimo, quando divenuto poliziotto, rimasi basito nell’apprendere che un uomo di Cosa nostra – conosciuto da noi picciriddi – come il capo indiscusso, era titolare di porto d’armi. Ci volle l’acume investigativo del vice questore Ninni Cassarà, per “scoprire” il ruolo apicale del soggetto. Cassarà pagò con la vita: fu ucciso il 6 agosto 1985, insieme a Roberto Antiochia.

In cuor mio c’è ancora rabbia e amarezza per aver visto la double face di alcuni politici, che esibivano rigore verso la lotta alla mafia, per poi gozzovigliare coi mafiosi stessi. I miei migliori amici sono stati ammazzati, proprio dall’assordante silenzio di coloro che avrebbero dovuto fornirci gli strumenti per evitare la loro morte. Negli anni 80 e 90, questo Paese, fu letteralmente conquistato manu militare dai mafiosi. Dopo le stragi del 92/93, nessun politico ebbe un sussulto di dignità istituzionale, dimettendosi. Invece, rimasero attaccati alle poltrone e poi mi vengono a parlare di antimafia delle istituzioni

Tuttavia, oggi sono pago perché non vedo più quei soloni dell’antimafia, che sciorinavano cavolate a iosa: era necessario che sparissero dalla scena pubblica, almeno così non rompono più i cabbasisi. L’antimafia è una cosa seria e non abbiamo bisogno di soggetti che speculano o lucrano sul sangue versato dai nostri martiri. No, noi non avevamo bisogno di pacche sulle spalle, avevamo bisogno di lavorare in silenzio per tentare di dare giustizia a chi era stato meno fortunato di noi.

Durante il lavoro, ricevetti premi ed elogi, finanche l’avanzamento al grado superiore per meriti speciali, ma nel mio cuore c’è solo posto per: “All’ispet. Giuseppe Giordano, per il particolare contributo offerto nell’individuazione degli autori della strage di Capaci. Roma 21/12/1993. Il Direttore DIA”. Noi della Squadra mobile palermitana e della Dia, che vivemmo gli anni più violenti della mattanza e delle stragi del 92/93 (Palermo era considerata come Beirut) non possiamo dimenticare. Infine, ascoltare il ministro Nordio, che ancora oggi insiste nel dire che i mafiosi non usano i telefonini, mi fa acchianare u sangu in testa.

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