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Francia al voto (di nuovo): il salto nel vuoto di Macron e lo spettro delle vittoria di Le Pen. Con l’incognita del nuovo fronte della sinistra

In Francia, c’è una generazione di elettori ed elettrici che sa esattamente dove si trovava il 21 aprile 2002 dopo le ore 21. A casa di un’amica, nella sede di un partito, in un bar. Quella data che per noi vuol dire poco o niente, segna uno dei grandi strappi della storia repubblicana francese: è il giorno in cui la tv ha annunciato che Jean-Marie Le Pen, il razzista e xenofobo Le Pen, aveva preso più voti del candidato socialista Lionel Jospin e arrivava al secondo turno delle presidenziali. Quello, per davvero, fu uno choc: un milione di persone scesero nelle strade di tutto il Paese e Jacques Chirac vinse con oltre l’80 per cento dei consensi. Si era manifestato, per la prima volta, il famoso cordone sanitario del fronte repubblicano capace di unire nemici in nome di un nemico più grande. Oggi, solo ventidue anni dopo, la Francia va alle urne per eleggere la nuova Assemblea nazionale con il rischio che quella stessa estrema destra possa avere abbastanza seggi per arrivare al governo. I tabù, quel “qui non passeranno mai” e gli appelli alla responsabilità sono caduti definitivamente: a prescindere dal risultato, si apre una fase politica mai vista prima. Emmanuel Macron, più o meno consapevolmente, si è buttato nel vuoto in cerca di una reazione. Che c’è stata, ma neanche lontanamente simile a quella di vent’anni fa. Perché quel nemico comune contro cui dovrebbero battersi sinistre e partito del presidente, è un attore legittimo per una gran parte della popolazione.

Le regole – Come funzionano le legislative? Il sistema è complesso e proprio anche su queste difficoltà puntava Macron quando le ha convocate. Oggi fino alle 18 (alle 20 a Parigi) si va al voto in 577 collegi con un sistema maggioritario a doppio turno. Vince chi ha la maggioranza assoluta (purché sia pari al 25% degli iscritti alle liste) e va al secondo turno chi ottiene almeno il 12,5% dei consensi tra gli iscritti. Più è alta l’affluenza e più probabili saranno non solo i ballottaggi, ma anche i triangolari o quadrangolari. Per avere la maggioranza assoluta all’assemblea e quindi, presumibilmente, avere l’incarico di formare il governo, servono 289 seggi. Stando ai sondaggi nessun partito ce la farà: al RN potrebbero andare tra i 220 e i 260 seggi, al Nuovo fronte popolare tra i 180 e i 210, a Ensemble! tra i 75 e i 110, ai Repubblicani tra i 25 e i 50.

Il futuro di Macron – Macron ha iniziato la sua corsa politica con una incoronazione davanti alla piramide del Louvre, mentre dalle casse arrivava l’inno alla gioia per l’Europa unita. Dieci anni dopo, il presidente della Repubblica che si è intestato di poter governare quasi senza i francesi o a prescindere dai loro umori, si trova a dover fare i conti con un clima di disaffezione che ha ignorato e sottovalutato. Pochi giorni fa, alla vigilia delle elezioni, a mollarlo (un po’) è stato lo stesso le Monde: ha pubblicato un lungo articolo sul “tempo della disgrazia” del presidente della Repubblica. E ha rivelato che, nei giorni scorsi, il capo dell’Eliseo ha telefonato all’ex eletto Patrick Vignal per sondare il terreno, e si è sentito dare la risposta che più temeva: “Le persone ti odiano”. E’ la stessa frase che, un anno fa, i francesi gridavano nei cortei contro la riforma delle pensioni: “Tout le monde te déteste”. Possibile che non lo avesse previsto? Per Macron, l’enfant prodige della Francia che per primo spaccò il bipolarismo per presentarsi come il presidente della terza via al centro, è il più grande smacco. Sentirsi e volersi Napoleone, ritrovarsi cancellato dai manifesti elettorali del suo partito e ridotto al silenzio per far dimenticare che Ensemble! è la forza politica che rappresenta. Gabriel Attal, il giovane incaricato da Macron per essere il suo alter ego, ha provato a distinguersi e distanziarsi. Ma due settimane non possono bastare per cambiare dinamiche ormai incardinate da mesi. Questo non vuol dire che non ci sia ancora una parte di francesi che lo cerca e che si sente rappresentato dalla sua linea: una crescita, rispetto alle Europee, i sondaggi la riconoscono. Ma non basta per essere competitivi e, soprattutto, non basta per blindare la sua poltrona. Lui ha detto e ridetto che non si dimetterà, così quel che costi. Ed è pronto anche a rientrare nel ruolo di semplice garante di una coabitazione con l’estrema destra. Nessuno però, allo stato attuale, può dire quanto alte saranno le pressioni perché si faccia da parte e se avrà il peso politico di reggerle tutte.

Bardella e la fusione verso i Repubblicani – Quando Jordan Bardella, il 28enne delfino di Marine Le Pen, ha presentato il programma di governo ai giornalisti ha scelto di aprire con una frase: “Siamo pronti a governare”, ha detto. E non doveva convincere certo i suoi elettori. Bensì quell’establishment che ancora li vede come gli alieni, mentre di estraneo al sistema hanno ormai poco o niente. Le due settimane scarse di campagna elettorale del giovane lepenista sono state all’insegna della tensione di chi è in testa, continua a crescere, e deve solo evitare di sbagliare il colpo della vita a pochi metri dalla porta. Non è andato tutto bene. Per niente. I primi tentennamenti sulla fattibilità delle proposte che non devono più solo reggere se gridate dai banchi delle opposizioni, si sono fatti sentire. Lo scivolone più grande è stato sulla riforma delle pensioni: prima ha detto che “no” non l’avrebbero toccata, poi invece sì. E alla fine, nel bel mezzo dell’unico dibattito tv, si è incartato sull’età che, stando alla sua proposta, finirebbe a essere più alta della riforma Macron. In generale però, il vento soffia forte e sempre più a destra. Un colpo su tutti ha avuto un grandissimo impatto: aver portato i Repubblicani all’implosione, con tanto di psicodramma di Eric Ciotti barricato nel suo ufficio dopo aver annunciato l’alleanza con il Rassemblement National. I neo-gollisti lo hanno sfiduciato, ma lui è riuscito a mettere una sessantina di candidati in comune con il RN nei collegi (tra cui se stesso). A far rumore più di tutto è stato il simbolo: la destra che rompe anche l’ultimo baluardo e si dice pronta a fondersi con l’estrema destra. Infine, a proposito di tabù infranti, Bardella è riuscito anche a incassare le aperture del mondo imprenditoriale. Quel sistema che si muove solo quando capisce che il vento sta cambiando davvero, si è rifiutato di associarsi agli appelli repubblicani e non ha escluso la possibilità di iniziare a lavorare sotto un governo del RN. Nel frattempo i mercati, molto agitati, hanno preoccupato e non poco. Ma non abbastanza da far schierare imprenditori e mondo degli affari compatto per Macron.

Il fronte delle sinistre – Cinque giorni è il tempo che c’è voluto al Nuovo fronte popolare della sinistra per unirsi. Pochissimo. Ne fanno parte i Socialisti, la France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon, gli ecologisti e il partito comunista. A occhio esterno poteva sembrare quasi scontato che trovassero un accordo, ma non lo era affatto. Le elezioni Europee hanno segnato il ritorno in crescita dei Socialisti e la difficoltà della compagine ritenuta più radicale. Ma l’emergenza di non farsi trovare a pezzi di fronte all’ipotesi di un governo Bardella (Le Pen) è riuscita là dove tavoli e trattative avevano fallito. E’ rinata la formazione Nupes, quella che alle scorse presidenziali aveva sognato la rimonta. E dalla loro hanno trovato un elettorato spesso più unito di quello che sono i singoli leader: sono le forze che hanno guidato le proteste degli ultimi mesi e sono quelli che si sono mobilitati più in fretta. Macron e i suoi però, seguiti subito dal RN, hanno giocato a trasformarli nell’estremo da temere tanto quando l’estrema destra. Una etichetta che li ha messi nella stessa casella del nemico che avrebbero dovuto combattere tutti insieme: un altro segno di dinamiche politiche completamente nuove. A pesare in negativo anche l’ombra di Mélenchon, temuto e non amato neppure dentro il Nfp: lui ha detto “non sono il leader” e ha mandato avanti Manuel Bompard, che è riuscito nell’essere l’antitesi del padre politico, ovvero essere riconosciuto come il leader tranquillo e sereno. Le accuse di antisemitismo e di radicalità a una parte de la France Insoumise sono rimaste e gli avversari le hanno usate a piacimento. Per molti però, sono l’unica alternativa che può incarnare quel che resta del fronte repubblicano, tanto che uno come François Hollande è tornato in campo candidandosi personalmente (occhio alle mire personali) e addirittura Dominque Strauss Khan ha detto che sono loro la vera alternativa. Su una cosa vanno forte: essere veramente l’alternativa a sinistra a Macron, una opzione di cambiamento che abbia una spinta almeno competitiva con quella del RN. Anche se nella direzione opposta. Ma se rischiano di non essere abbastanza forti alle urne per raggiungere i numeri da maggioranza, la colpa è anche di chi li ha mollati e ha rotto la retorica del cordone sanitario. Ed è proprio il partito di Macron che, in caso di secondo turno, è rimasto vago (per ora) sulle indicazioni di voto. Mollandoli a metà di quella che avrebbe dovuto essere, secondo loro, una guerra di resistenza alle destre che avanzano. Del resto, rispetto al 2002, un’altra differenza c’è: Jospin, il celebre sconfitto da Jean-Marie Le Pen, dopo aver incassato il colpo come un pugile suonato si è ritirato per sempre dalla politica. Oggi i leader, pur di non mollare, si aggrappano con le unghie fino all’ultimo filo della fune. Nella speranza che non si spezzi per davvero.