Come al solito in Italia la vittoria ha cento padri, la sconfitta è sempre orfana. Ancora una volta per una delle peggiori figuracce della storia del calcio italiano (continuiamo a scavare il fondo) non pagherà nessuno. Non il ct Luciano Spalletti, che rimane al suo posto in panchina nonostante una gestione scriteriata e confusionaria della rosa. Figuriamoci il presidente federale Gabriele Gravina, sempre in prima fila quando si tratta di festeggiare e prendersi i meriti, mai le colpe del fallimento. Quale fosse l’andazzo si era già intuito nell’immediato dopo partita contro la Svizzera. I due l’hanno confermato in una conferenza stampa imbarazzante, in cui hanno fatto finta di metterci la faccia, per lanciare in realtà pizzini a destra e a manca e salvarsi la poltrona. Per chiunque avesse avuto un minimo di dignità, dopo una figuraccia del genere bastava una parola: “Dimissioni”. In quindici minuti di monologo, Gravina non ha avuto il coraggio nemmeno di nominarla, girandoci attorno con sinonimi di ogni tipo per esorcizzarla, e far capire che non ha la benché minima intenzione di farsi da parte.

Anzi, il “senso di responsabilità” gli impone di rimanere al suo posto. Quasi dovremmo ringraziarlo. Soltanto a domanda specifica, ha chiarito che “non esiste nell’ambito di una governance federale che qualcuno possa pretendere le dimissioni e governare dall’esterno il nostro mondo”, evocando il solito complotto. Il riferimento è alle presunte manovre di Lotito, la sua ossessione, e di altri ambienti politici a lui ostili. Salvo poi affrettarsi a ribadire che il suo rapporto col governo è ottimo, quando invece, dalla Commissione sui controlli ai club al recente emendamento pro Serie A rivelato dal Fatto, è del tutto evidente che anche la politica ha scaricato il presidente federale. Pretendere le sue dimissioni oggi, però, non sarebbe un’ingerenza, solo decenza.

In compenso Gravina ha parlato a ruota libera di tutto fuorché delle sue concrete responsabilità. Ha ricordato i successi di “Casa Azzurri”, autentico marchettificio dove lui ospitava i ministri Tajani e Lollobrigida, mentre la nazionale sul campo rimediava figuracce. Se l’è presa con le Leghe che riducono lo spazio per le nazionali, con i patron della Serie A che vogliono tesserare gli extracomunitari, con un sistema che toglie spazio ai nostri giovani e non gli permette di attivare “meccanismi di valorizzazione del talento”, qualsiasi cosa ciò voglia dire.

Quello che invece non ha detto Gravina, è che si ritrova in carica dal 2018 e in questi sei anni ha fatto tanto per se stesso (il posto da vicepresidente Uefa, lo stipendio, una fitta rete di relazioni personali e politiche), poco e niente per il calcio italiano. Della riforma dei campionati neanche l’ombra. Di innovazioni concrete nemmeno. Anche la gestione della nazionale è stata sbagliata, perché il disastro di Spalletti viene da lontano, dal mancato esonero di Mancini e dalla sua fuga in Arabia la scorsa estate, che ha costretto a cambiare ct in corsa ed arrivare agli Europei completamente impreparati. Su tutto questo, neanche una parola. E anche se fosse vero in minima parte ciò che lui sostiene – cioè che il presidente federale non ha reali poteri per incidere sulle questioni tecniche e quindi non va giudicato dai risultati della nazionale – rimane un fatto: non si è mai visto un capo di un movimento (qualsiasi esso sia) che sopravvive non a uno, ma a due fallimenti epocali come questi. Ma di questo ai potenti del pallone non importa. È lo stesso film già visto dopo la mancata qualificazione ai Mondiali contro la Macedonia del Nord. Il finale è ancora più patetico.

Twitter: @lVendemiale

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