Camen Consoli di è raccontata in una lunga intervista a Sette del Corriere della Sera. Una telefonata da Miami perché, spiega, “sono vent’anni che faccio concerti negli Stati Uniti: siamo arrivati a quota sessanta. Quand’ero piccola l’Italia era molto influenzata dallo stile americano: il cinema, i telefilm. Seguivo Madonna, volevo avere quello stile di vita. Mangiare l’hamburger, fare come le ragazzine che vedevo in tv. Invece mi giravo e c’era l’Etna, l’elefante di travertino e i palazzi antichi. Vista da Catania l’America era tutti i sogni possibili”.
Una lunga chiacchierata con Jonathan Bazzi che arriva a toccare il rapporto di Consoli con i social network: “Non li uso. Il primo social, WhatsApp, me l’ha installato mio figlio. Perché sennò non riusciva a chiamarmi in America. Ogni volta che lo usavo la gente attorno a me rideva. Poi ho capito: mi aveva messo come sfondo l’immagine di una scimmia col microfono“. Ancora: “Adesso io e lei stiamo parlando: io sono a Miami, lei è a Milano, questo è il privilegio dell’era digitale. Però se io adesso vado a pranzo col mio chitarrista, Massimo Roccaforte, è difficile guardarci negli occhi, perché lui chatta. Oppure qua in America è pieno di self-driving car, automobili a guida autonoma. Le intelligenze artificiali possono essere anche più efficienti o precise degli uomini: queste self-driving car è dimostrato che possono evitare incidenti. Però l’etica non la puoi eludere. Queste auto, per esempio, hanno il proprietario che viaggia al sedile posteriore. Se in mezzo alla strada compaiono due bambini, l’intelligenza artificiale dice: ‘Se volto da questa parte rischio di incontrare un camion e c’è il 70% di possibilità che il mio padrone muoia. Cosa faccio?’. Le macchine funzionano comunque sulla base di istruzioni date dall’uomo: hanno efficienza ma non coscienza. Scelgono sulla base di parametri decisi a priori da chi le crea. Non mi inquieta l’idea di una rivoluzione dei robot contro gli uomini, mi preoccupa chi dice ai robot di fare cosa”. Un discorso, quello della cantautrice, che passa attraverso “la violenza del clic” perché, dice, “finiamo a interagire solo con quelli che la pensano come noi: lo puoi fare solo in questa scatoletta con cui noi stiamo dialogando ora. Nella vita non funziona così. Quindi trovo sia diseducativo” e spiega la rinuncia ai social come “strategia di resistenza”: “Innanzitutto fare ciò che mi piace. Voglio trarre gioia da ciò che faccio. Con questo non vuol dire che io mi esimo dal lavoro o dalla fatica: voglio faticare molto, ma quando mi sveglio al mattino voglio essere felice. Quindi elimino ciò che non mi fa stare bene: non uso i social ma incontro tutti. Alla fine dei concerti sto anche due, tre ore: parlo con chi c’è, faccio un sacco di foto in cui vengo bruttissima, ma non mi interessa. Resistere per me è continuare a promuovere il contatto umano, l’empatia, la chimica dell’incontro. Abbiamo un corpo e non lo si può sostituire, come ci stanno chiedendo di fare, coi trend e il sistema binario. Tant’è vero che non siamo felici: il consumo di antidepressivi oggi supera ogni precedente”.