Lo hanno ricordato come il Gandhi di Sicilia, l’attivista non violento che scelse una delle terre più povere d’Europa per lottare in difesa degli ultimi. Ma se quell’isola era alla fame, la responsabilità era anche dello strapotere di Cosa nostra e dei suoi legami col potere politico. Ecco perché oltre a essere sociologo e poeta, Danilo Dolci fu anche cronista e attivista antimafia: fu il primo a indagare sul sistema clientelare che ha regolato i rapporti politici dal Dopoguerra. Ed è partendo da questo tipo di analisi che Dolci arrivò a denunciare i rapporti tra i boss ed esponenti di primo piano della Democrazia cristiana. Per questo motivo venne processato e condannato. Queste vicende, però, sono completamente scomparse dai ricordi pubblicati da giornali e dai siti d’informazione nel centenario della nascita del sociologo. Un’omissione abbastanza rilevante, se pensiamo che a portare a processo Dolci fu anche Bernardo Mattarella, il padre dell’attuale presidente della Repubblica. Ma andiamo con ordine.

Il primo processo – Originario di Sesana – oggi in Slovenia, ma all’epoca in provincia di Trieste – Dolci visse gran parte della sua vita a Trappeto, minuscolo centro tra Palermo e Trapani, dove all’epoca la miseria era talmente nera che i bambini potevano pure morire di fame. Molto si è scritto delle denunce di Dolci sulle condizioni di vita dei contadini in quella Sicilia del Dopoguerra. Il sociologo è l’inventore dello sciopero al contrario: nel 1956 organizza centinaia di disoccupati, che si mettono all’opera per ricostruire una strada abbandonata. Per questo motivo finisce sotto processo con l’accusa di invasione di terreni. In sua difesa si schierano tra gli altri Norberto Bobbio, Italo Calvino, Alberto Moravia, Bertrand Russell, Jean-Paul Sartre. Ad assisterlo come avvocato c’è Piero Calamandrei, che nella sua arringa chiede l’assoluzione con queste parole: “Aiutateci, signori Giudici, colla vostra sentenza, aiutate i morti che si sono sacrificati e aiutate i vivi, a difendere questa Costituzione che vuol dare a tutti i cittadini del nostro Paese pari giustizia è pari dignità!”. Le tesi del padre costituente non bastano a convincere il giudice di Partinico: alla fine Dolci viene condannato a 50 giorni di reclusione.

Le accuse a Mattarella – Ma a essere omesso, nel centenario della nascita, è soprattutto il secondo processo al quale fu sottoposto il Gandhi di Sicilia. Una vicenda ancora oggi controversa, ma storicamente rilevante e che per questo motivo merita di essere ricordata. È il 1965 quando Dolci convoca una conferenza stampa a Roma, per presentare un dossier appena illustrato alla Commissione Antimafia, che sarà poi pubblicato nel libro Chi gioca solo (Einaudi). In quei documenti il sociologo accusa di collusioni con la mafia alcuni tra i democristiani più importanti dell’epoca in Sicilia: Bernardo Mattarella e Calogero Volpe. Entrambi deputati fin dai tempi dell’Assemblea costituente, in quel momento sono rispettivamente ministro per il Commercio Estero e sottosegretario alla Sanità del secondo governo di Aldo Moro. Le accuse di Dolci provocano molto clamore, i due politici reagiscono con una querela: il sociologo finisce di nuovo alla sbarra, insieme al suo collaboratore Franco Alasia. A difendere Mattarella ci sono due principi del foro: Giovanni Leone, già presidente della Camera, del Consiglio e futuro capo dello Stato, e Girolamo Bellavista, già deputato e in passato difensore di Michele Navarra, capomafia di Corleone, ma poi anche del suo assassino, il boss Luciano Liggio. Molto tempo dopo il nome di Bellavista comparirà tra gli iscritti alla loggia massonica P2: l’avvocato, però, era già morto da cinque anni quando nel 1981 gli elenchi di Licio Gelli diventano di dominio pubblico.

La condanna del Gandhi di Sicilia – Vista anche l’importanza dei protagonisti, il processo a Dolci e Alasia diventa un caso politico-giudiziario. Per due anni i giornali seguono le udienze in cui sfilano decine di testimoni: Giulio Andreotti, il cardinale Enrico Ruffini, Charles Poletti, il commissario per gli Affari civili dell’Amgot, il governo militare americano nell’Italia occupata. Alla fine Dolci e Alasia non riescono a dimostrare le loro accuse contro Mattarella e Volpe: il 21 giugno 1967 il tribunale li condanna a due anni per diffamazione. Una pena che non viene scontata grazie all’indulto, approvato alcuni mesi prima. La sentenza verrà confermata dalla Corte d’Appello nel 1972 e poi l’anno dopo anche dalla Cassazione. Nelle motivazioni si legge che “Mattarella ha espresso sempre in modo inequivoco la sua condanna del fenomeno mafioso” e “non è mai entrato in contatto con l’ambiente mafioso da lui invece apertamente e decisamente osteggiato nel corso di tutta la sua carriera politica”. Secondo i giudici il padre di Sergio Mattarella ha “portato a conoscenza del Tribunale, obiettivamente documentandolo, l’atteggiamento di insuperabile contrarietà alla mafia assunto e mantenuto nel corso di tutta la sua carriera politica”. I magistrati non credono alle accuse di Dolci e Alasia: “Nulla di quanto contenuto nel dossier che ha costituito la base del massiccio attacco nei riguardi di Mattarella ha trovato quindi conforto e riscontro sul piano della prova, dimostrandosi le dichiarazioni raccolte dagli imputati nient’altro che il frutto di irresponsabili pettegolezzi, di malevoli dicerie se non addirittura di autentiche falsità”. Bernardo Mattarella non riuscirà a vedere Dolci condannato in via definitiva: morirà infatti l’1 marzo del 1971, un anno prima della sentenza di secondo grado, colpito da un malore mentre si trova Montecitorio. All’epoca era presidente della Commissione Difesa, dato che a partire dal 1966 Moro lo aveva estromesso dal suo terzo governo. Era appena cominciato il processo a Dolci, ma l’esclusione di Mattarella dall’esecutivo venne motivata semplicemente con “questioni di equilibrio” tra le correnti della Dc.

I Kennedy di Sicilia – La vicenda della condanna del Gandhi italiano per la diffamazione di Mattarella senior rimarrà confinata sulle vecchie pagine dei quotidiani fino al 2015, quando il figlio minore dell’ex ministro viene eletto al Quirinale. A quel punto tornano di attualità le ombre proiettate in passato sul patriarca della famiglia che in tanti definiscono “i Kennedy di Sicilia“. Come la dinastia del presidente Usa ucciso a Dallas, infatti, anche i Mattarella hanno avuto una storia politica costellata dai lutti e dal dolore: alle accuse di contiguità lanciate nei confronti del vecchio Bernardo (mai dimostrate e sempre smentite), si affianca l’attività antimafia del figlio Piersanti, il suo secondogenito. Fratello maggiore di Sergio, presidente della Regione Siciliana e allievo politico di Moro, venne ucciso da Cosa nostra e forse non solo. I killer lo ammazzano sotto casa il giorno dell’Epifania del 1980: tra i primi soccorritori, pochi minuti dopo gli spari, c’è anche il futuro capo dello Stato, fotografato da Letizia Battaglia mentre regge il cadavere del fratello, riverso sui sedili dell’auto. Nel febbraio del 2015 quell’istantanea in bianco e nero diventa la copertina dell’elezione al Quirinale dell’ultimogenito dei Mattarella, i Kennedy di Sicilia.

L’altra causa – Quando diventa il dodicesimo presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella ha già avanzato una richiesta di risarcimento danni da 250 mila euro nei confronti dello scrittore Alfio Caruso. Insieme ai nipoti Bernardo junior e Maria, infatti, il futuro capo dello Stato aveva accusato l’autore del volume Da Cosa nasce cosa (Longanesi) di aver “infangato la figura di Mattarella padre” e di aver descritto “in maniera grossolana” i rapporti politici del fratello Piersanti. Il libro era uscito nel 2000, ma i Mattarella fanno causa solo nel 2009. Otto anni dopo, nel 2017, la giudice della prima sezione civile del tribunale di Palermo Maura Cannella condanna Caruso al pagamento di 30mila euro. Alla base di questa sentenza, poi confermata in Appello, c’era anche la vecchia condanna di Dolci, prodotta dai difensori della famiglia Mattarella. A nulla sono servite, durante il processo, le richieste dell’avvocato Fabio Repici, legale di Caruso, che ha sostenuto come la sentenza del 1967 appartenenesse “a quella giurisprudenza reazionaria che spesso negava la stessa esistenza della mafia”. Il difensore ha depositato anche alcune dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Tommaso Buscetta e Francesco Marino Mannoia, arrivate molti anni dopo la condanna di Dolci per diffamazione: entrambi avevano accusato il padre dell’attuale capo dello Stato di aver avuto legami con Cosa nostra. Agli atti era stato depositato anche un verbale del 2016 in cui il pentito Francesco Di Carlo sosteneva di aver conosciuto Mattarella senior in qualità di “uomo d’onore” di Castellammare del Golfo, il borgo marinaro in provincia di Trapani da cui proviene la famiglia del presidente. Dichiarazioni, queste ultime, che il tribunale ha giudicato “tardive” rispetto ai termini istruttori.

La richiesta di revisione – È sempre utilizzando i verbali di Buscetta, Mannoia e Di Carlo che nel 2016 Repici chiede alla corte d’Appello di Roma di aprire un procedimento di revisione sulla sentenza di condanna di Dolci e Alasia. A sostegno della sua richiesta, l’avvocato sostiene che “successivamente al passaggio in giudicato della condanna (confermata dalla Cassazione nel ’73) sono intervenuti incontrovertibili elementi di prova che impongono, oggi, il proscioglimento dei due condannati”. Insomma: non sarebbe stato possibile condannare Dolci per diffamazione se le dichiarazioni di Buscetta, Mannoia e Di Carlo fossero già esistite negli anni ’70. Secondo l’avvocato, se Mattarella fosse stato ancora vivo negli anni in cui erano arrivate le dichiarazioni dei pentiti, “sarebbe seguita la sua iscrizione sul registro degli indagati per il delitto di concorso esterno in associazione di tipo mafioso”. E ancora, nel vecchio processo per diffamazione, Repici sottolineava la “pregiudiziale inattendibilità dei testimoni a discolpa in ragione dell’estrazione sociale o politica“: insomma, i giudici non ritennero credibili i testi a favore di Dolci perché erano tutti comunisti. Secondo l’avvocato, dunque, appariva “ormai doveroso che la memoria di Dolci, persona che ha illustrato la nazione italiana in ogni angolo del pianeta per il suo eccelso impegno sociale e umanitario che gli ha conquistato la fama di Gandhi italiano, e la figura del suo collaboratore Alasia vengano finalmente risarcite e sgravate da un’infame condanna, anche per liberare la giurisdizione italiana da un pronunciamento che ha segnato uno dei punti più bassi in materia di mafia e di antimafia”. La corte d’Appello di Roma, però, ha rigettato quella richiesta: per i giudici non ci sono gli estremi per aprire un procedimento di revisione. Dolci, dunque, resta condannato per aver diffamato Bernardo Mattarella e Calogero Volpe. Una vicenda sicuramente controversa, ma che provocò grande clamore mediatico. E che ebbe una profonda influenza nella vita di Danilo Dolci. Ecco perché ometterla tout court non rende probabilmente un buon servizio alla memoria del Gandhi di Sicilia. E in fondo neanche a quella del Paese.

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