Lo hanno ricordato come il Gandhi di Sicilia, l’attivista non violento che scelse una delle terre più povere d’Europa per lottare in difesa degli ultimi. Ma se quell’isola era alla fame, la responsabilità era anche dello strapotere di Cosa nostra e dei suoi legami col potere politico. Ecco perché oltre a essere sociologo e poeta, Danilo Dolci fu anche cronista e attivista antimafia: fu il primo a indagare sul sistema clientelare che ha regolato i rapporti politici dal Dopoguerra. Ed è partendo da questo tipo di analisi che Dolci arrivò a denunciare i rapporti tra i boss ed esponenti di primo piano della Democrazia cristiana. Per questo motivo venne processato e condannato. Queste vicende, però, sono completamente scomparse dai ricordi pubblicati da giornali e dai siti d’informazione nel centenario della nascita del sociologo. Un’omissione abbastanza rilevante, se pensiamo che a portare a processo Dolci fu anche Bernardo Mattarella, il padre dell’attuale presidente della Repubblica. Ma andiamo con ordine.
Il primo processo – Originario di Sesana – oggi in Slovenia, ma all’epoca in provincia di Trieste – Dolci visse gran parte della sua vita a Trappeto, minuscolo centro tra Palermo e Trapani, dove all’epoca la miseria era talmente nera che i bambini potevano pure morire di fame. Molto si è scritto delle denunce di Dolci sulle condizioni di vita dei contadini in quella Sicilia del Dopoguerra. Il sociologo è l’inventore dello sciopero al contrario: nel 1956 organizza centinaia di disoccupati, che si mettono all’opera per ricostruire una strada abbandonata. Per questo motivo finisce sotto processo con l’accusa di invasione di terreni. In sua difesa si schierano tra gli altri Norberto Bobbio, Italo Calvino, Alberto Moravia, Bertrand Russell, Jean-Paul Sartre. Ad assisterlo come avvocato c’è Piero Calamandrei, che nella sua arringa chiede l’assoluzione con queste parole: “Aiutateci, signori Giudici, colla vostra sentenza, aiutate i morti che si sono sacrificati e aiutate i vivi, a difendere questa Costituzione che vuol dare a tutti i cittadini del nostro Paese pari giustizia è pari dignità!”. Le tesi del padre costituente non bastano a convincere il giudice di Partinico: alla fine Dolci viene condannato a 50 giorni di reclusione.
Le accuse a Mattarella – Ma a essere omesso, nel centenario della nascita, è soprattutto il secondo processo al quale fu sottoposto il Gandhi di Sicilia. Una vicenda ancora oggi controversa, ma storicamente rilevante e che per questo motivo merita di essere ricordata. È il 1965 quando Dolci convoca una conferenza stampa a Roma, per presentare un dossier appena illustrato alla Commissione Antimafia, che sarà poi pubblicato nel libro Chi gioca solo (Einaudi). In quei documenti il sociologo accusa di collusioni con la mafia alcuni tra i democristiani più importanti dell’epoca in Sicilia: Bernardo Mattarella e Calogero Volpe. Entrambi deputati fin dai tempi dell’Assemblea costituente, in quel momento sono rispettivamente ministro per il Commercio Estero e sottosegretario alla Sanità del secondo governo di Aldo Moro. Le accuse di Dolci provocano molto clamore, i due politici reagiscono con una querela: il sociologo finisce di nuovo alla sbarra, insieme al suo collaboratore Franco Alasia. A difendere Mattarella ci sono due principi del foro: Giovanni Leone, già presidente della Camera, del Consiglio e futuro capo dello Stato, e Girolamo Bellavista, già deputato e in passato difensore di Michele Navarra, capomafia di Corleone, ma poi anche del suo assassino, il boss Luciano Liggio. Molto tempo dopo il nome di Bellavista comparirà tra gli iscritti alla loggia massonica P2: l’avvocato, però, era già morto da cinque anni quando nel 1981 gli elenchi di Licio Gelli diventano di dominio pubblico.
La condanna del Gandhi di Sicilia – Vista anche l’importanza dei protagonisti, il processo a Dolci e Alasia diventa un caso politico-giudiziario. Per due anni i giornali seguono le udienze in cui sfilano decine di testimoni: Giulio Andreotti, il cardinale Enrico Ruffini, Charles Poletti, il commissario per gli Affari civili dell’Amgot, il governo militare americano nell’Italia occupata. Alla fine Dolci e Alasia non riescono a dimostrare le loro accuse contro Mattarella e Volpe: il 21 giugno 1967 il tribunale li condanna a due anni per diffamazione. Una pena che non viene scontata grazie all’indulto, approvato alcuni mesi prima. La sentenza verrà confermata dalla Corte d’Appello nel 1972 e poi l’anno dopo anche dalla Cassazione. Nelle motivazioni si legge che “Mattarella ha espresso sempre in modo inequivoco la sua condanna del fenomeno mafioso” e “non è mai entrato in contatto con l’ambiente mafioso da lui invece apertamente e decisamente osteggiato nel corso di tutta la sua carriera politica”. Secondo i giudici il padre di Sergio Mattarella ha “portato a conoscenza del Tribunale, obiettivamente documentandolo, l’atteggiamento di insuperabile contrarietà alla mafia assunto e mantenuto nel corso di tutta la sua carriera politica”. I magistrati non credono alle accuse di Dolci e Alasia: “Nulla di quanto contenuto nel dossier che ha costituito la base del massiccio attacco nei riguardi di Mattarella ha trovato quindi conforto e riscontro sul piano della prova, dimostrandosi le dichiarazioni raccolte dagli imputati nient’altro che il frutto di irresponsabili pettegolezzi, di malevoli dicerie se non addirittura di autentiche falsità”. Bernardo Mattarella non riuscirà a vedere Dolci condannato in via definitiva: morirà infatti l’1 marzo del 1971, un anno prima della sentenza di secondo grado, colpito da un malore mentre si trova Montecitorio. All’epoca era presidente della Commissione Difesa, dato che a partire dal 1966 Moro lo aveva estromesso dal suo terzo governo. Era appena cominciato il processo a Dolci, ma l’esclusione di Mattarella dall’esecutivo venne motivata semplicemente con “questioni di equilibrio” tra le correnti della Dc.
I Kennedy di Sicilia – La vicenda della condanna del Gandhi italiano per la diffamazione di Mattarella senior rimarrà confinata sulle vecchie pagine dei quotidiani fino al 2015, quando il figlio minore dell’ex ministro viene eletto al Quirinale. A quel punto tornano di attualità le ombre proiettate in passato sul patriarca della famiglia che in tanti definiscono “i Kennedy di Sicilia“. Come la dinastia del presidente Usa ucciso a Dallas, infatti, anche i Mattarella hanno avuto una storia politica costellata dai lutti e dal dolore: alle accuse di contiguità lanciate nei confronti del vecchio Bernardo (mai dimostrate e sempre smentite), si affianca l’attività antimafia del figlio Piersanti, il suo secondogenito. Fratello maggiore di Sergio, presidente della Regione Siciliana e allievo politico di Moro, venne ucciso da Cosa nostra e forse non solo. I killer lo ammazzano sotto casa il giorno dell’Epifania del 1980: tra i primi soccorritori, pochi minuti dopo gli spari, c’è anche il futuro capo dello Stato, fotografato da Letizia Battaglia mentre regge il cadavere del fratello, riverso sui sedili dell’auto. Nel febbraio del 2015 quell’istantanea in bianco e nero diventa la copertina dell’elezione al Quirinale dell’ultimogenito dei Mattarella, i Kennedy di Sicilia.
L’altra causa – Quando diventa il dodicesimo presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella ha già avanzato una richiesta di risarcimento danni da 250 mila euro nei confronti dello scrittore Alfio Caruso. Insieme ai nipoti Bernardo junior e Maria, infatti, il futuro capo dello Stato aveva accusato l’autore del volume Da Cosa nasce cosa (Longanesi) di aver “infangato la figura di Mattarella padre” e di aver descritto “in maniera grossolana” i rapporti politici del fratello Piersanti. Il libro era uscito nel 2000, ma i Mattarella fanno causa solo nel 2009. Otto anni dopo, nel 2017, la giudice della prima sezione civile del tribunale di Palermo Maura Cannella condanna Caruso al pagamento di 30mila euro. Alla base di questa sentenza, poi confermata in Appello, c’era anche la vecchia condanna di Dolci, prodotta dai difensori della famiglia Mattarella. A nulla sono servite, durante il processo, le richieste dell’avvocato Fabio Repici, legale di Caruso, che ha sostenuto come la sentenza del 1967 appartenenesse “a quella giurisprudenza reazionaria che spesso negava la stessa esistenza della mafia”. Il difensore ha depositato anche alcune dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Tommaso Buscetta e Francesco Marino Mannoia, arrivate molti anni dopo la condanna di Dolci per diffamazione: entrambi avevano accusato il padre dell’attuale capo dello Stato di aver avuto legami con Cosa nostra. Agli atti era stato depositato anche un verbale del 2016 in cui il pentito Francesco Di Carlo sosteneva di aver conosciuto Mattarella senior in qualità di “uomo d’onore” di Castellammare del Golfo, il borgo marinaro in provincia di Trapani da cui proviene la famiglia del presidente. Dichiarazioni, queste ultime, che il tribunale ha giudicato “tardive” rispetto ai termini istruttori.
La richiesta di revisione – È sempre utilizzando i verbali di Buscetta, Mannoia e Di Carlo che nel 2016 Repici chiede alla corte d’Appello di Roma di aprire un procedimento di revisione sulla sentenza di condanna di Dolci e Alasia. A sostegno della sua richiesta, l’avvocato sostiene che “successivamente al passaggio in giudicato della condanna (confermata dalla Cassazione nel ’73) sono intervenuti incontrovertibili elementi di prova che impongono, oggi, il proscioglimento dei due condannati”. Insomma: non sarebbe stato possibile condannare Dolci per diffamazione se le dichiarazioni di Buscetta, Mannoia e Di Carlo fossero già esistite negli anni ’70. Secondo l’avvocato, se Mattarella fosse stato ancora vivo negli anni in cui erano arrivate le dichiarazioni dei pentiti, “sarebbe seguita la sua iscrizione sul registro degli indagati per il delitto di concorso esterno in associazione di tipo mafioso”. E ancora, nel vecchio processo per diffamazione, Repici sottolineava la “pregiudiziale inattendibilità dei testimoni a discolpa in ragione dell’estrazione sociale o politica“: insomma, i giudici non ritennero credibili i testi a favore di Dolci perché erano tutti comunisti. Secondo l’avvocato, dunque, appariva “ormai doveroso che la memoria di Dolci, persona che ha illustrato la nazione italiana in ogni angolo del pianeta per il suo eccelso impegno sociale e umanitario che gli ha conquistato la fama di Gandhi italiano, e la figura del suo collaboratore Alasia vengano finalmente risarcite e sgravate da un’infame condanna, anche per liberare la giurisdizione italiana da un pronunciamento che ha segnato uno dei punti più bassi in materia di mafia e di antimafia”. La corte d’Appello di Roma, però, ha rigettato quella richiesta: per i giudici non ci sono gli estremi per aprire un procedimento di revisione. Dolci, dunque, resta condannato per aver diffamato Bernardo Mattarella e Calogero Volpe. Una vicenda sicuramente controversa, ma che provocò grande clamore mediatico. E che ebbe una profonda influenza nella vita di Danilo Dolci. Ecco perché ometterla tout court non rende probabilmente un buon servizio alla memoria del Gandhi di Sicilia. E in fondo neanche a quella del Paese.
Cronaca
I 100 anni dalla nascita di Danilo Dolci, quell’omissione sulle accuse al padre di Mattarella e la condanna per diffamazione
Lo hanno ricordato come il Gandhi di Sicilia, l’attivista non violento che scelse una delle terre più povere d’Europa per lottare in difesa degli ultimi. Ma se quell’isola era alla fame, la responsabilità era anche dello strapotere di Cosa nostra e dei suoi legami col potere politico. Ecco perché oltre a essere sociologo e poeta, Danilo Dolci fu anche cronista e attivista antimafia: fu il primo a indagare sul sistema clientelare che ha regolato i rapporti politici dal Dopoguerra. Ed è partendo da questo tipo di analisi che Dolci arrivò a denunciare i rapporti tra i boss ed esponenti di primo piano della Democrazia cristiana. Per questo motivo venne processato e condannato. Queste vicende, però, sono completamente scomparse dai ricordi pubblicati da giornali e dai siti d’informazione nel centenario della nascita del sociologo. Un’omissione abbastanza rilevante, se pensiamo che a portare a processo Dolci fu anche Bernardo Mattarella, il padre dell’attuale presidente della Repubblica. Ma andiamo con ordine.
Il primo processo – Originario di Sesana – oggi in Slovenia, ma all’epoca in provincia di Trieste – Dolci visse gran parte della sua vita a Trappeto, minuscolo centro tra Palermo e Trapani, dove all’epoca la miseria era talmente nera che i bambini potevano pure morire di fame. Molto si è scritto delle denunce di Dolci sulle condizioni di vita dei contadini in quella Sicilia del Dopoguerra. Il sociologo è l’inventore dello sciopero al contrario: nel 1956 organizza centinaia di disoccupati, che si mettono all’opera per ricostruire una strada abbandonata. Per questo motivo finisce sotto processo con l’accusa di invasione di terreni. In sua difesa si schierano tra gli altri Norberto Bobbio, Italo Calvino, Alberto Moravia, Bertrand Russell, Jean-Paul Sartre. Ad assisterlo come avvocato c’è Piero Calamandrei, che nella sua arringa chiede l’assoluzione con queste parole: “Aiutateci, signori Giudici, colla vostra sentenza, aiutate i morti che si sono sacrificati e aiutate i vivi, a difendere questa Costituzione che vuol dare a tutti i cittadini del nostro Paese pari giustizia è pari dignità!”. Le tesi del padre costituente non bastano a convincere il giudice di Partinico: alla fine Dolci viene condannato a 50 giorni di reclusione.
Le accuse a Mattarella – Ma a essere omesso, nel centenario della nascita, è soprattutto il secondo processo al quale fu sottoposto il Gandhi di Sicilia. Una vicenda ancora oggi controversa, ma storicamente rilevante e che per questo motivo merita di essere ricordata. È il 1965 quando Dolci convoca una conferenza stampa a Roma, per presentare un dossier appena illustrato alla Commissione Antimafia, che sarà poi pubblicato nel libro Chi gioca solo (Einaudi). In quei documenti il sociologo accusa di collusioni con la mafia alcuni tra i democristiani più importanti dell’epoca in Sicilia: Bernardo Mattarella e Calogero Volpe. Entrambi deputati fin dai tempi dell’Assemblea costituente, in quel momento sono rispettivamente ministro per il Commercio Estero e sottosegretario alla Sanità del secondo governo di Aldo Moro. Le accuse di Dolci provocano molto clamore, i due politici reagiscono con una querela: il sociologo finisce di nuovo alla sbarra, insieme al suo collaboratore Franco Alasia. A difendere Mattarella ci sono due principi del foro: Giovanni Leone, già presidente della Camera, del Consiglio e futuro capo dello Stato, e Girolamo Bellavista, già deputato e in passato difensore di Michele Navarra, capomafia di Corleone, ma poi anche del suo assassino, il boss Luciano Liggio. Molto tempo dopo il nome di Bellavista comparirà tra gli iscritti alla loggia massonica P2: l’avvocato, però, era già morto da cinque anni quando nel 1981 gli elenchi di Licio Gelli diventano di dominio pubblico.
La condanna del Gandhi di Sicilia – Vista anche l’importanza dei protagonisti, il processo a Dolci e Alasia diventa un caso politico-giudiziario. Per due anni i giornali seguono le udienze in cui sfilano decine di testimoni: Giulio Andreotti, il cardinale Enrico Ruffini, Charles Poletti, il commissario per gli Affari civili dell’Amgot, il governo militare americano nell’Italia occupata. Alla fine Dolci e Alasia non riescono a dimostrare le loro accuse contro Mattarella e Volpe: il 21 giugno 1967 il tribunale li condanna a due anni per diffamazione. Una pena che non viene scontata grazie all’indulto, approvato alcuni mesi prima. La sentenza verrà confermata dalla Corte d’Appello nel 1972 e poi l’anno dopo anche dalla Cassazione. Nelle motivazioni si legge che “Mattarella ha espresso sempre in modo inequivoco la sua condanna del fenomeno mafioso” e “non è mai entrato in contatto con l’ambiente mafioso da lui invece apertamente e decisamente osteggiato nel corso di tutta la sua carriera politica”. Secondo i giudici il padre di Sergio Mattarella ha “portato a conoscenza del Tribunale, obiettivamente documentandolo, l’atteggiamento di insuperabile contrarietà alla mafia assunto e mantenuto nel corso di tutta la sua carriera politica”. I magistrati non credono alle accuse di Dolci e Alasia: “Nulla di quanto contenuto nel dossier che ha costituito la base del massiccio attacco nei riguardi di Mattarella ha trovato quindi conforto e riscontro sul piano della prova, dimostrandosi le dichiarazioni raccolte dagli imputati nient’altro che il frutto di irresponsabili pettegolezzi, di malevoli dicerie se non addirittura di autentiche falsità”. Bernardo Mattarella non riuscirà a vedere Dolci condannato in via definitiva: morirà infatti l’1 marzo del 1971, un anno prima della sentenza di secondo grado, colpito da un malore mentre si trova Montecitorio. All’epoca era presidente della Commissione Difesa, dato che a partire dal 1966 Moro lo aveva estromesso dal suo terzo governo. Era appena cominciato il processo a Dolci, ma l’esclusione di Mattarella dall’esecutivo venne motivata semplicemente con “questioni di equilibrio” tra le correnti della Dc.
I Kennedy di Sicilia – La vicenda della condanna del Gandhi italiano per la diffamazione di Mattarella senior rimarrà confinata sulle vecchie pagine dei quotidiani fino al 2015, quando il figlio minore dell’ex ministro viene eletto al Quirinale. A quel punto tornano di attualità le ombre proiettate in passato sul patriarca della famiglia che in tanti definiscono “i Kennedy di Sicilia“. Come la dinastia del presidente Usa ucciso a Dallas, infatti, anche i Mattarella hanno avuto una storia politica costellata dai lutti e dal dolore: alle accuse di contiguità lanciate nei confronti del vecchio Bernardo (mai dimostrate e sempre smentite), si affianca l’attività antimafia del figlio Piersanti, il suo secondogenito. Fratello maggiore di Sergio, presidente della Regione Siciliana e allievo politico di Moro, venne ucciso da Cosa nostra e forse non solo. I killer lo ammazzano sotto casa il giorno dell’Epifania del 1980: tra i primi soccorritori, pochi minuti dopo gli spari, c’è anche il futuro capo dello Stato, fotografato da Letizia Battaglia mentre regge il cadavere del fratello, riverso sui sedili dell’auto. Nel febbraio del 2015 quell’istantanea in bianco e nero diventa la copertina dell’elezione al Quirinale dell’ultimogenito dei Mattarella, i Kennedy di Sicilia.
L’altra causa – Quando diventa il dodicesimo presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella ha già avanzato una richiesta di risarcimento danni da 250 mila euro nei confronti dello scrittore Alfio Caruso. Insieme ai nipoti Bernardo junior e Maria, infatti, il futuro capo dello Stato aveva accusato l’autore del volume Da Cosa nasce cosa (Longanesi) di aver “infangato la figura di Mattarella padre” e di aver descritto “in maniera grossolana” i rapporti politici del fratello Piersanti. Il libro era uscito nel 2000, ma i Mattarella fanno causa solo nel 2009. Otto anni dopo, nel 2017, la giudice della prima sezione civile del tribunale di Palermo Maura Cannella condanna Caruso al pagamento di 30mila euro. Alla base di questa sentenza, poi confermata in Appello, c’era anche la vecchia condanna di Dolci, prodotta dai difensori della famiglia Mattarella. A nulla sono servite, durante il processo, le richieste dell’avvocato Fabio Repici, legale di Caruso, che ha sostenuto come la sentenza del 1967 appartenenesse “a quella giurisprudenza reazionaria che spesso negava la stessa esistenza della mafia”. Il difensore ha depositato anche alcune dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Tommaso Buscetta e Francesco Marino Mannoia, arrivate molti anni dopo la condanna di Dolci per diffamazione: entrambi avevano accusato il padre dell’attuale capo dello Stato di aver avuto legami con Cosa nostra. Agli atti era stato depositato anche un verbale del 2016 in cui il pentito Francesco Di Carlo sosteneva di aver conosciuto Mattarella senior in qualità di “uomo d’onore” di Castellammare del Golfo, il borgo marinaro in provincia di Trapani da cui proviene la famiglia del presidente. Dichiarazioni, queste ultime, che il tribunale ha giudicato “tardive” rispetto ai termini istruttori.
La richiesta di revisione – È sempre utilizzando i verbali di Buscetta, Mannoia e Di Carlo che nel 2016 Repici chiede alla corte d’Appello di Roma di aprire un procedimento di revisione sulla sentenza di condanna di Dolci e Alasia. A sostegno della sua richiesta, l’avvocato sostiene che “successivamente al passaggio in giudicato della condanna (confermata dalla Cassazione nel ’73) sono intervenuti incontrovertibili elementi di prova che impongono, oggi, il proscioglimento dei due condannati”. Insomma: non sarebbe stato possibile condannare Dolci per diffamazione se le dichiarazioni di Buscetta, Mannoia e Di Carlo fossero già esistite negli anni ’70. Secondo l’avvocato, se Mattarella fosse stato ancora vivo negli anni in cui erano arrivate le dichiarazioni dei pentiti, “sarebbe seguita la sua iscrizione sul registro degli indagati per il delitto di concorso esterno in associazione di tipo mafioso”. E ancora, nel vecchio processo per diffamazione, Repici sottolineava la “pregiudiziale inattendibilità dei testimoni a discolpa in ragione dell’estrazione sociale o politica“: insomma, i giudici non ritennero credibili i testi a favore di Dolci perché erano tutti comunisti. Secondo l’avvocato, dunque, appariva “ormai doveroso che la memoria di Dolci, persona che ha illustrato la nazione italiana in ogni angolo del pianeta per il suo eccelso impegno sociale e umanitario che gli ha conquistato la fama di Gandhi italiano, e la figura del suo collaboratore Alasia vengano finalmente risarcite e sgravate da un’infame condanna, anche per liberare la giurisdizione italiana da un pronunciamento che ha segnato uno dei punti più bassi in materia di mafia e di antimafia”. La corte d’Appello di Roma, però, ha rigettato quella richiesta: per i giudici non ci sono gli estremi per aprire un procedimento di revisione. Dolci, dunque, resta condannato per aver diffamato Bernardo Mattarella e Calogero Volpe. Una vicenda sicuramente controversa, ma che provocò grande clamore mediatico. E che ebbe una profonda influenza nella vita di Danilo Dolci. Ecco perché ometterla tout court non rende probabilmente un buon servizio alla memoria del Gandhi di Sicilia. E in fondo neanche a quella del Paese.
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Roma, 14 mar. (Adnkronos Salute) - Le scelte nello stile di vita possono avere un impatto significativo anche nella gestione della fibrillazione atriale, un disturbo del ritmo cardiaco che rischia di sviluppare 1 over 40 su 4 e che rappresenta una delle principali cause di ictus che colpisce milioni di donne e uomini in tutta Europa. Alcuni alimenti come alcol, caffeina o cibi piccanti possono scatenare un episodio di questa condizione cronica che spesso può passare inosservata: molti non ne sono consapevoli e non ricevono una diagnosi. Per aiutare le persone a comprendere meglio il legame tra alimentazione e fibrillazione atriale - riporta una nota - Daiichi Sankyo Europe ha ospitato a Milano oggi 'Beats and Bites', che gioca sul suono dei termini inglesi 'battiti e morsi'. All'evento, esperti di malattie cardiovascolari insieme alla European Nutrition for Health Alliance e Alice (Associazione per la lotta all'ictus cerebrale) Lombardia hanno affrontato le preoccupazioni comuni ed evidenziato le strategie di riduzione del rischio con la partecipazione dello chef italiano Ruben Bondì, che ha creato un menù di ricette semplici, gustose e salutari per il cuore.
"Gli operatori sanitari oggi devono fornire ai pazienti le giuste informazioni per comprendere il loro rischio di fibrillazione atriale e adottare misure proattive di prevenzione - spiega Daniele Andreini, direttore della Divisione di Cardiologia universitaria e Imaging cardiaco dell'Irccs ospedale Galeazzi Sant'Ambrogio di Milano - I cambiamenti nello stile di vita, come il movimento regolare e l'alimentazione equilibrata, svolgono un ruolo cruciale nel migliorare la salute del cuore". Tra le strategie alimentari da adottare, gli esperti consigliano: consumare 2 porzioni di pesce ricco di omega-3 alla settimana per gli adulti e ridurre il sale a meno di 5 g al giorno; fare attenzione alle dimensioni delle porzioni e gestire i livelli di stress e di sonno, che potrebbero portare all'obesità e complicare i problemi cardiovascolari se non gestiti correttamente. Infine, fare circa 2 ore di esercizio fisico di intensità moderata alla settimana - passeggiare, fare le scale o ballare - oltre ad un allenamento di resistenza, 2 giorni alla settimana.
"Eventi come 'Beats and Bites' forniscono un utile supporto, offrendo consigli pratici e mostrando l'impatto che semplici cambiamenti nella dieta e nel movimento possono avere nel ridurre il rischio di fibrillazione atriale - rimarca Giacomo Falzi, vicepresidente Alice Lombardia - E' incoraggiante vedere al centro dell'attenzione il benessere dei pazienti, con esperti e sostenitori che si uniscono per dare a individui e famiglie la possibilità di assumere il controllo della propria salute cardiovascolare".
Le lacune nella conoscenza e nella gestione della fibrillazione atriale lasciano molti pazienti senza le informazioni e il supporto di cui hanno bisogno. "Daiichi Sankyo Europa aspira ad arricchire la qualità della vita delle persone in tutto il mondo - afferma Ilaria Leggeri, direttore del Patient Engagement della farmaceutica - Per questo è necessario andare oltre la malattia, guardare alle persone che convivono con la patologia, alla loro qualità della vita, alle loro scelte di vita e ai risultati che contano per loro". L'evento 'Beats and Bites' fa parte della più ampia iniziativa dell'azienda 'Il tuo cuore, nelle tue mani: fibrillazione atriale', dedicata all'educazione e alla responsabilizzazione delle persone, affinché diano priorità alla loro salute cardiovascolare.
Roma, 14 mar. (Adnkronos) - In occasione della Giornata dell'Unità nazionale e del Tricolore, che ricorre lunedì prossimo, 17 marzo, sulla facciata di Montecitorio verrà proiettata la bandiera nazionale, dalla mezzanotte e nelle successive ore serali e notturne.
Roma, 14 mar. (Adnkronos) - "Per il loro concreto e costante sostegno nel percorso di avvicinamento delle comunità di Gorizia e Nova Gorica soprattutto nel contesto di Go 2025", il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e quello emerito della Slovenia, Borut Pahor, verranno insigniti domani, con una cerimonia in programma alle 11.30 al Teatro comunale Giuseppe Verdi, del Premio 'Santi Ilario e Taziano-Città di Gorizia'. Un nuovo riconoscimento per i due statisti ai quali nell'aprile scorso fu attribuita la laurea honoris causa in Giurisprudenza dall'Università di Trieste, a conferma di un impegno comune per rimarginare le ferite della storia e mantenere vivi un'amicizia e un legame tra due i popoli, saldando un rapporto anche sul piano personale.
Numerose le occasioni di incontro e i gesti simbolici. A partire dal 26 ottobre 2016, quando i due presidenti parteciparono alla cerimonia sul tema "L'Europa luogo di superamento dei conflitti", nel centenario dell'unione di Gorizia all'Italia. Fu quella l'occasione per la deposizione di due corone d'alloro sul monumento dedicato ai soldati sloveni caduti sul fronte dell'Isonzo 1915-1917 a Doberdò del Lago, mentre in precedenza il Capo dello Stato italiano, al Parco della Rimembranza di Gorizia, aveva reso omaggio al monumento ai caduti della Prima guerra mondiale e al lapidario che ricorda i deportati goriziani.
Ma fu soprattutto il bilaterale a Trieste il 13 luglio 2020 particolarmente denso di significati. Mattarella e Pahor resero omaggio, mano nella mano, alla Foiba di Basovizza e al Monumento ai caduti sloveni antifascisti Ferdo Bidovec, Fran Marusic, Zvonimir Milos e Alojzij Valencic, condannati a morte nel 1930. Quindi i due presidenti conferirono a Boris Pahor, scrittore sloveno naturalizzato italiano, rispettivamente l’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al merito della Repubblica italiana e l’Ordine per Meriti eccezionali. Fu quindi firmato il protocollo di restituzione del Narodni Dom, l'edificio che ospitava le associazioni culturali slovene distrutto dalla violenza nazionalista dello squadrismo fascista nel 1920.
"La storia –disse Mattarella in quella occasione- non si cancella e le esperienze dolorose, sofferte dalle popolazioni di queste terre, non si dimenticano. Proprio per questa ragione il tempo presente e l’avvenire chiamano al senso di responsabilità, a compiere una scelta tra fare di quelle sofferenze patite, da una parte e dall’altra, l’unico oggetto dei nostri pensieri, coltivando risentimento e rancore, oppure, al contrario, farne patrimonio comune, nel ricordo e nel rispetto, sviluppando collaborazione, amicizia, condivisione del futuro".
"Al di qua e al di là della frontiera -il cui significato di separazione è ormai, per fortuna, superato per effetto della comune scelta di integrazione nell’Unione europea -sloveni e italiani sono decisamente per la seconda strada, rivolta al futuro, in nome dei valori oggi comuni: libertà, democrazia, pace. Oggi, qui a Trieste -con la presenza dell’amico presidente Borut Pahor- segniamo una tappa importante nel dialogo tra le culture che contrassegnano queste aree di confine e che rendono queste aree di confine preziose per la vita dell’Europa". Concetti ribaditi nell’incontro del 21 ottobre 2021, per celebrare la designazione congiunta di Gorizia e Nova Gorica 'Capitale europea della Cultura 2025 con il progetto 'Go! Borderless'. “Un meraviglioso esempio della costruzione di un futuro comune nell’Unione europea".
L'avvicendamento alla guida della Slovenia, con l'elezione della presidente Nataša Pirc Musar, ha visto proseguire le iniziative di collaborazione e dialogo tra i vertici istituzionali dei due Paesi. Mattarella nell'aprile dello scorso anno partecipò alle celebrazioni per il ventennale dell'adesione della Slovenia all'Ue e con l'omologa Pirc Musar ha inaugurato a febbraio di quest'anno Go 2025, Prima Capitale europea della cultura transfrontaliera.
Roma, 14 mar. (Adnkronos Salute) - Il lupus eritematoso sistemico (Les) è una malattia autoimmune che può colpire vari organi e apparati del nostro organismo. Da qui la difficoltà nella diagnosi e nel trattamento. "Negli ultimi 10 anni, per la malattia, è cambiato il paradigma terapeutico" ed è possibile "raggiungere la remissione, spegnere una delle sue complicanze, quale la nefrite lupica, e ridurre al minimo", fino "anche a sospendere, il cortisone". Protagonisti di questa rivoluzione sono, "in particolare, i Jak inibitori, famiglia di nuovi farmaci già disponibili in Italia da dicembre 2017 per l'artrite reumatoide". Così Fabrizio Conti, professore di Reumatologia Università Sapienza e direttore della Uoc di Reumatologia del Policlinico Umberto I di Roma, riassume all'Adnkronos Salute l'evoluzione nella gestione di questa patologia cronica che è caratterizzata da manifestazioni eritematose cutanee e mucose con sensibilità alla luce del sole, ma che può coinvolgere altri organi come rene, articolazioni e sistema nervoso centrale.
"Il Les si presenta in modo variabile da persona a persona", sottolinea Rosa Pelissero, presidente Gruppo Les Odv, ma colpisce "soprattutto donne giovani in età fertile". Il rapporto di incidenza tra femmine e maschi è di 9 a 1. "Dopo la diagnosi ci si trova da un giorno all'altro malati di una malattia cronica. Si deve imparare a convivere con una nuova normalità. La ricerca è importante: 40-50 anni fa l'obiettivo era la sopravvivenza. C'era solo il cortisone ad alti dosaggi", come cura. "L'avvento di nuovi farmaci - chiarisce - apre alla possibilità di sospenderlo e quindi anche di ridurre gli effetti collaterali e i danni" del farmaco. "La gravidanza", allora, era "assolutamente" inimmaginabile. "Oggi invece, grazie ai progressi fatti, le donne affette da lupus sanno di poter affrontare un gravidanza. La nostra aspettativa è sempre di avere nuovi farmaci, il più efficaci possibili, con meno effetti collaterali e che possano essere somministrati su larga scala".
Il decorso della patologia, spesso, "è di tipo relapsing-remitting in cui, a fasi di attività di malattia, si alternano fasi di quiescenza - spiega Gian Domenico Sebastiani, direttore Uoc di Reumatologia dell'Azienda ospedaliera San Camillo-Forlanini di Roma - I Jak inibitori, piccole molecole sintetizzate chimicamente, assunte per via orale, inibiscono l'attività di diverse citochine, che sono molecole pro infiammatorie. I Jak inibitori differiscono dai farmaci usati fino ad oggi perché - precisa - vanno a colpire meccanismi mirati della patologia", ma anche perché, essendo orali, hanno più "facilità di somministrazione", cosa importante per "l'aderenza" al trattamento. Inoltre, "per la rapidità di azione", se devono essere sospesi "smettono velocemente di agire".
Questa "nuova classe di immunomodulatori per via orale bloccano uno specifico enzima", janus chinasi, "che attiva diversi recettori cellulari - rimarca Gianluca Moroncini, professore di Medicina interna, direttore Dipartimento Scienze cliniche e molecolari, Università Politecnica delle Marche e direttore Clinica medica, Aou delle Marche - Pur riconoscendo un bersaglio molecolare specifico, in realtà, sono antinfiammatori modulatori ad ampio spettro. Il mio centro è impegnato in un trial clinico multicentrico per verificare se abbiano, nel Lupus eritematoso sistemico, un'efficacia pari a quella che hanno già dimostrato in altre malattie per le quali sono autorizzate, come l'artrite reumatoide o l'artrite psoriasica. Attendiamo con ansia l'esito delle sperimentazioni".
Roma, 14 mar (Adnkronos) - "Ho apprezzato molto la posizione di Elly Schlein quando ha detto no al piano di riarmo. Una buona premessa per impostare un progetto di alternativa a questo governo". Lo ha detto Giuseppe Conte alla Stampa estera.
"Se ci dobbiamo ritrovare con una alternativa che segue la Meloni e sottoscrive la politica estera disastrosa della Meloni è un disastro, che alternativa puoi presentare agli italiani se ti trovi a votare con la Meloni per l'escalation militare? Per non parlare di Gaza", ha spiegato il leader del M5s.
Roma, 14 mar (Adnkronos) - "Il problema è che il Pd ha dimostrato di essere un partito troppo plurale, lo dico con una battuta. Ci sono dei momenti di sintesi e quando il tuo leader prende una posizione così chiara, qualche chiarimento adesso andrebbe operato. Ma il problema non riguarda me ma un'altra forza politica". Lo ha detto Giuseppe Conte alla Stampa estera.
Roma, 14 mag (Adnkronos) - "Oggi scopriamo che ci sono i proprietari delle reti che vogliono dettare le condizioni, vogliono utilizzare gli algoritmi per condizionare il dibattito, usare gli algoritmi per condizionare le elezioni. Ci dobbiamo svegliare". Lo ha detto Giuseppe Conte alla Stampa estera.
"Il problema vero è che sono monopolisti, come Starlink per i satelliti a bassa quota. Che garanzia di sicurezza abbiamo che domani, come per l'Ucraina, Musk non si svegli e dica chiudo l'interruttore? L'Europa è l'unico contesto sovranazionale che cerca di dettare regole su questo fronte. E' un problema serio da affrontare", ha spiegato il leader del M5s.