Continuare a studiare filosofia, in più luoghi possibili e nonostante gli sforzi che comporta. È questo proposito a guidare le scelte di Daniele Bruno Garancini, che dopo gli studi in Spagna e in Svizzera, ha fatto ricerca in Cina, Inghilterra, Austria. E che per lavoro dovrà probabilmente spostarsi ancora. Forse per tutta la vita. Eppure, racconta a ilfattoquotidiano.it, l’incertezza è anche sinonimo di libertà: “Per il prossimo periodo di ricerca ho già inviato altre 12 domande, nel 2025 potrei essere in Islanda, in Inghilterra, in Germania, in Giappone… fa paura, ma è anche entusiasmante”.

Dopo la laurea triennale all’Università Statale di Milano, Daniele decide di lasciare l’Italia: “Avevo sentito di un master a Barcellona in Filosofia analitica, e mi sono trasferito. Sono arrivato che avevo 23 anni, era la mia prima esperienza fuori dall’Italia e in un certo senso è stata l’ultima esperienza in cui in un posto ho avuto la percezione di essere all’estero, perché poi dopo che ti trasferisci per la seconda, terza, quarta volta, smette di essere all’estero. Il tuo luogo d’origine non è più il baricentro, non ti senti più in vacanza”. Dopo un anno, i suoi studi proseguono in Svizzera: “In Spagna la magistrale dura un anno, quindi dopo non avevo abbastanza crediti per fare domanda per un dottorato e così sono andato a Lugano, dove ho studiato all’Università della Svizzera italiana per altri due anni”.

L’esperienza in Svizzera è quella più formativa, perché pur essendo una realtà piccola si ritrova a studiare con i migliori professori delle varie accademie del mondo, dalla Columbia di New York a Tubingen, dalla Statale di Milano a Oxford. E proprio a Oxford, dopo il secondo master, fa un anno di ricerca durante il dottorato a Hong Kong.

Daniele non fa ricerca in Italia, ma non crede al luogo comune che dipingerebbe la situazione accademica della penisola come necessariamente più disastrata di quella estera: “Sento che molti hanno la percezione che in Italia sia necessario avere conoscenze e raccomandazioni. Non so se sia così, ma credo che il problema sia più radicale e accomuni le varie università del mondo: i posti sono pochi, e in pochi possono permettersi gli studi necessari e la precarietà economica che contraddistingue i primi anni di ricerca. La verità è che l’accademia è un sistema classista, in Italia come all’estero”.

Ad Oxford, racconta, la moneta principale con cui vengono ripagati gli sforzi dei giovani accademici è il prestigio. Un piatto molto magro, se non hai alle spalle una famiglia ricca: “Per fare ricerca ti devi poter permettere di passare 7-8 anni, dopo aver finito gli studi dell’obbligo, a studiare. Questo implica non poter fare un lavoro a tempo pieno e quindi non avere un salario intero. Se vieni da un contesto sociale in cui la tua famiglia ha bisogno di soldi, non puoi permetterti questo investimento di tempo”. Non solo: “Dopo questo requisito iniziale, già di per sé classista, ci sono ulteriori fattori, come le rette stellari delle università più prestigiose e la paga spesso molto bassa riservata ai ricercatori. Oxford stessa paga male, e molti dottorandi sono senza borsa. Un mio amico che non viene da una famiglia particolarmente ricca è alla ricerca di borse praticamente ogni tre mesi per poter proseguire il suo lavoro”.

A ciò si aggiunge la scarsità di posti disponibili rispetto al numero di domande, con le incertezze che ne conseguono: “Le probabilità di essere preso sono sempre molto poche, nonostante si abbia un curriculum competitivo, ed è il motivo per cui è necessario mandare più domande possibile, ed essere disposti a spostarsi pur di proseguire. A me personalmente piace dovermi trasferire per lavoro, ma non dovrebbe essere una scelta obbligata. Ora sto facendo il postdoc in Austria, insegno qui, e non so dove sarò tra un anno. Se avessi voluto comprare casa e fare figli entro i 35-40 anni, sarebbe stato impossibile”.

Secondo i dati Eurostat, nel 2022 sono stati spesi 352 miliardi di euro in ricerca e sviluppo (R&S). Si tratta di una crescita di 6,3 punti percentuali rispetto al precedente anno (dove erano stati investiti 331 miliardi). Tuttavia, se si considera la spesa percentuale della ricerca rispetto al PIL dei Paesi membri UE, i risultati mostrano una leggera diminuzione (dal 2,3% nel 2021 al 2,2% nel 2022). In particolare, in Italia si è passati dall’1,4% del 2021 all’1,3% del 2022, in Austria dal 3,3% al 3,2%. E mentre le imprese investono di più, sono proprio i governi europei ad aver diminuito la quota.

Secondo Daniele, poi, la gestione dei fondi è migliorabile: “Io non so dire se si dovrebbe investire di più nella ricerca, ma di certo so che i soldi che già arrivano potrebbero essere gestiti meglio. Le biblioteche universitarie, ad esempio, devono spendere una parte considerevole dei fondi per dare ai propri studenti e ai propri ricercatori accesso alle riviste accademiche e ai libri che vengono pubblicati dagli editori accademici. È un sistema un po’ perverso: ogni università paga il ricercatore, l’editor, l’esperto per il controllo qualità, e infine ripaga il prodotto finito all’editore. Ma ciò che aggiunge l’editore alla ricerca vale il prezzo che lo Stato paga?”.

Un discorso che vale anche per la parte didattica del lavoro accademico, su cui si investe meno. “Veniamo premiati per la ricerca, per quanto e come pubblichiamo. Il livello di attenzione alla qualità del nostro insegnamento, invece, è molto basso. Ci sono pochi incentivi ad essere dei bravi professori, a stare dietro agli studenti, a cercare di capire quali difficoltà incontrino”, spiega. “Ma siamo anche insegnanti, e dovremmo poterlo fare nel migliore dei modi, avendo la possibilità di seguire soprattutto i ragazzi con più problemi. Solo così possiamo fare la differenza e istituire nel mondo accademico un circolo virtuoso”. Per far sì che gli studenti di oggi, siano i ricercatori di domani. Fuori e dentro l’accademia, e a prescindere dall’estrazione socio-economica.

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