“Di solito quando si parla di turismo sostenibile ci si concentra sull’aspetto della domanda, quindi sui comportamenti individuali dei turisti. Ma il problema è che quei comportamenti sono anche indotti, sono il risultato di una nuova offerta creata dal mercato. L’esempio più classico è Airbnb: prima è stata creata l’offerta a tavolino, dopo le persone hanno iniziato ad usarla, non viceversa”. Sarah Gainsforth, giornalista, ricercatrice indipendente, scrittrice, autrice di vari libri sul tema degli affitti brevi e del turismo sostenibile (tra cui: Airbnb città merce. Storie di resistenza alla gentrificazione digitale, DeriveApprodi), rovescia il punto di vista. A rendere sostenibile, o insostenibile, il turismo non sono (solo) i singoli che scelgono il campeggio, il treno o le saponette ma le politiche. “Se, come in Italia oggi, vanno tutte verso la direzione dello sviluppo folle del turismo, il risultato è l’insostenibilità”, spiega Gainsforth.
Come dovrebbero orientarsi gli amministratori?
Si parla tanto di turismo in Italia ma raramente dietro c’è una pianificazione precisa. Si punta in maniera meramente ideologica su grandi opere ed eventi per attrarre turismo perché questo dovrebbe portare ricchezza. Il punto è anche chiedersi dove finisce questa ricchezza, a fronte dei costi sociali e ambientali scaricati sui territori. Penso a progetti demenziali come quello di una cabinovia, che costerebbe 34 milioni di euro, destinata ai turisti che arrivano con le navi da crociera e collegherebbe il porto con il Forte Begato alle spalle di Genova. Le navi da crociera hanno un impatto ambientale devastante, eppure si dirottano fondi pubblici per infrastrutture turistiche inutili, quando metà del Paese è collegata malissimo.
Esempi virtuosi ci sono?
Sì, quello dell’Alto Adige, che ha creato un Osservatorio sul turismo sostenibile e ha redatto un piano fondato su una visione complessiva del territorio e sull’integrazione del turismo con altri settori economici come l’agricoltura. Si tratta non a caso dell’unico caso in Italia di introduzione di un tetto all’offerta ricettiva turistica.
Gli sbarramenti all’accesso di alcuni luoghi possono servire?
Queste misure secondo me non sono esemplari, perché affrontano il problema a valle, non a monte. Sono il sintomo che il turismo non è stato gestito. Di base in Italia nessuno vuole fare l’unica cosa necessaria: ridurre il turismo.
Tuttavia, la crescita del turismo negli ultimi decenni è frutto anche della democratizzazione della possibilità di viaggiare.
Certo, è una ‘democratizzazione’ apparente, perché i costi ci sono, ma sono scaricati altrove, basti pensare a quelli ambientali (secondo un’analisi del WTTC le emissioni totali del turismo rappresentano tra l’8 el’11% delle emissioni globali di gas serra). Il tema della sostenibilità non può essere aggirato con misure classiste, con prezzi più alti e basta. Misure come il biglietto a Venezia potrebbero essere persino incostituzionali, non si può vietare l’accesso ai luoghi pubblici, alle città, la circolazione sul territorio nazionale.
Ci vuole un equilibrio: evitare il classismo ma anche l’overtotourism?
Sì, ma ripeto non attraverso misure che vietano l’accesso ai luoghi, inutili se non c’è una visione integrata. Accade che la stessa regione della località dove si vieta l’accesso o lo stazionamento in luogo pubblico fa marketing turistico o costruisce o allarga aeroporti per far arrivare più persone.
Cosa fare dunque?
La base è intervenire sulla capacità ricettiva, e quindi soprattutto sugli affitti brevi. Il primo passo è censire l’offerta ricettiva e capire se è sostenibile rispetto al numero di abitanti e alla pressione che induce.
All’estero cosa fanno?
All’estero tendono a vietare o regolamentare in maniera stringente gli affitti brevi. Poi ci sono città come Amsterdam che stanno addirittura facendo un antimarketing, non vogliono più turismo, passano a fare l’opposto. Il tema è sempre che tipo di economie ci sono: in Olanda non c’è solo il turismo, ma altri settori economici importanti. Il problema dell’Italia è che noi dipendiamo troppo dal turismo, così la politica magari non regolamenta gli affitti brevi perché troppe persone vivono di questa economia.
I Comuni potrebbero fare qualcosa?
Oggi hanno poca autonomia e sono ostaggio della tassa di soggiorno, quindi di fatto incentivano il turismo. Ci vorrebbero politiche fiscali differenziate, anche territorialmente. Anche se forse si tratterebbe di tassare di più gli affitti brevi, oggi in Italia hanno unicamente alzato l’aliquota dal secondo appartamento al quarto, dal 21 al 26 per cento, comunque molto bassa.
Ci vorrebbero quindi leggi a livello locale, regionale, nazionale?
I Comuni possono intervenire sulle destinazioni d’uso, come stanno facendo Bologna e Firenze. In ogni caso la legge non basta, ci vorrebbero controlli. Ma anche le tipologie regionali sono obsolete, bisognerebbe rivedere tutto. Queste questioni all’estero spesso non ci sono perché decide il Comune.
Che altre misure servirebbero?
Parlando di sostenibilità ambientale, faccio un esempio: in Oregon c’è tutta la costa libera, mare del tutto pubblico e ci sono bellissimi parchi nazionali. E lì incentivano il turismo a piedi o bicicletta, con dei campeggi all’interno dei parchi, senza prenotare e pagando pochissimo. Se invece ci vai in macchina devi prenotare mesi prima e paghi di più. Questa è una misura in cui metti un numero chiuso ma in base a un criterio di sostenibilità ambientale e non alla capacità di spesa. La zona rossa di Portofino è ridicola se si continuano ad accogliere navi da crociera e battelli di turisti giornalieri. Di nuovo, da noi c’è la tendenza a volere il turismo ricco.
E invece destagionalizzare? O delocalizzare i flussi turistici? Serve?
Spostare il turismo significa spostare il problema altrove. Neanche la destagionalizzazione funziona. Di nuovo, serve intervenire su capacità ricettiva. Il territorio non può essere visto in termini di attrattività turistica, il territorio è anche di chi lo abita.