Quanta distanza c’è tra l’ossessione di Turetta che mandava fino a 300 messaggi al giorno a Giulia per controllarla e la persecuzione di una giovane madre consumata da un intero clan mafioso a Napoli, per strapparle la potestà genitoriale su una bimba di tre anni? La distanza è piccola e purtroppo (per Giulia) a farla non è la così detta “riserva di violenza” che dovrebbe identificare precisamente il metodo mafioso: Turetta è passato dalla intimidazione al femminicidio.
Le cronache che arrivano da Napoli, e che abbiamo letto su Il Fatto ieri, raccontano di un incubo nel quale si ritrovano tutti gli ingredienti che mescolano il patriarcato con la sub cultura mafiosa in maniera così omogenea da rendere impossibile distinguere dove finisca una ed inizi l’altra.
Sulla bimba di tre anni si gioca la sporca partita di un maschio che intende ribadire con ogni mezzo la propria superiorità ed il proprio dominio esclusivo. Una sporca partita resa tanto più odiosa dal fatto che il padre della bimba è il rampollo di un clan egemone del quartiere Ponticelli e quindi in gioco non c’è soltanto il suo potere individuale (come nel caso di Turetta) ma quello collettivo della famiglia, perché dalla affermazione della primazia del padre, passa la conferma della forza dell’intero clan.
A farne le spese la madre: minacciata, picchiata, umiliata perché si rassegni a consegnare la bimba al clan come trofeo di guerra, come bottino di caccia. Una violenza tanto più spropositata perché il padre è in carcere e quindi strappare la bimba alla madre diventa un modo col quale tributare sostegno e ribadire legittimazione al capetto temporaneamente inibito dalla galera di Stato. Il celebre “welfare” mafioso nei confronti dei carcerati, si potrebbe dire.
L’incubo è stato interrotto dall’intervento di magistratura e Forze dell’Ordine e possiamo soltanto immaginare, ciò che nelle cronache giornalistiche non è raccontato e cioè che madre e bimba siano ora in qualche luogo sicuro e lontano.
Una prima considerazione: la lotta contro le mafie, in Italia come altrove, è lotta di emancipazione di donne e minori da un potere maschilista, violento e sprezzante. In altre parole è una lotta che richiama legittimamente quell’approccio caro al movimento femminista che è l’intersezionalità, oltre all’approccio internazionalista, per decenni cifra di ogni esperienza di lotta di liberazione (e non potrebbe che essere così). Questa consapevolezza è presente nei movimenti ed è ben radicata nella storia di quello anti mafia che è stato tante volte storia di donne ribelli al potere dei maschi, da Franca Viola a Serafina Battaglia (la madre diventata testimone di giustizia dopo l’assassinio del figlio), passando per l’indimenticata Letizia Battaglia (fotografa ed attivista), fino a Lea Garofalo. Ma, insieme all’internazionalismo, non pare ancora essere diventato una caratteristica propulsiva, riconoscibile, per dirla con Paulo Freire: non è ancora diventato un “tema generatore” e come sappiamo non basta che ci siano delle donne in ruoli di comando per fare la differenza.
E qui attacco la seconda considerazione: ma la Commissione parlamentare anti mafia, guidata dalla on. Chiara Colosimo, che fa? Da almeno dieci anni un fronte ampio e trasversale che ha in Libera un importante punto di riferimento chiede a gran voce che vengano approvate norme che sostengano donne e minori costretti in contesti mafiosi nel momento in cui decidano di rompere con quei contesti, per voltare pagina ed iniziare una vita libera dalla paura.
In questi giorni le Commissioni congiunte Affari Costituzionali e Giustizia stanno lavorando sul ddl 1660, così detto “pacchetto Sicurezza” voluto da Nordio, che contiene tante novità pessime sulle quali ci siamo soffermati in passato. Ma è innegabile che questo testo, che procede speditamente alla Camera e che con ogni probabilità non sarà più emendato in Senato, potrebbe essere il veicolo nel quale inserire finalmente queste norme.
L’ipotesi non è infondata per almeno due motivi: è stato recentemente discusso e bocciato dalla maggioranza un emendamento a prima firma Serracchiani che avrebbe allargato la platea di soggetti meritevoli di sostegno in quanto testimoni d’accusa per motivi di giustizia. Una norma, per intenderci, che avrebbe dato finalmente ristoro ad un uomo giusto come Augusto Di Meo, il testimone dell’assassinio di don Peppe Diana. Le cronache di Palazzo raccontano che la Serracchiani abbia pregato la maggioranza di accantonare l’emendamento in attesa di un segnale della Presidente Colosimo (che ha voluto Di Meo come suo consulente, per altro): niente da fare.
Si annuncia peraltro un emendamento a firma Colosimo che allargherebbe la possibilità di ristoro ad una certa categoria di familiari di vittime di mafie ingiustamente esclusa fin qui dai benefici di legge: perché non cogliere l’occasione e trasformalo in un emendamento più comprensivo? Quante audizioni serviranno ancora prima di assumersi la responsabilità morale e politica di una proposta? Quante altre donne e bimbe dovranno subire violenza nel frattempo? Per dirla con le parole di Danilo Dolci, bisogna “Fare presto e bene, perché si muore!”.