Due anni fa Palazzo Madama commise un errore: negò ai pm l’utilizzo delle intercettazioni che coinvolgevano l’allora senatore della Lega Armando Siri, coinvolto in un’indagine a carico di alcuni imprenditori che operavano nel settore delle energie rinnovabili. Bene: quel diniego non aveva ragione di esistere. È quanto stabilito dalla sentenza numero 117 della Consulta, che ha annullato la deliberazione con cui il 9 marzo 2022 il Senato negò l’autorizzazione richiesta dal Tribunale di Roma all’utilizzo delle intercettazioni. Il motivo: la delibera di Palazzo Madama è in contrasto con l’articolo 68, terzo comma, della Costituzione, secondo cui i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni. Con la sua decisione, la Corte costituzionale ha così accolto il ricorso del Tribunale di Roma.
All’origine del conflitto vi era la richiesta del giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Roma di utilizzare in giudizio otto intercettazioni, captate sull’utenza di un soggetto non parlamentare, che hanno coinvolto l’allora senatore Siri. Tali intercettazioni erano state effettuate, nell’ambito delle indagini svolte dalla Procura della Repubblica di Palermo a carico di alcuni imprenditori attivi nel settore delle energie rinnovabili, in un momento antecedente all’emersione di indizi di reità a carico del medesimo senatore, per un’ipotesi di corruzione. Nella fattispecie il Senato aveva ritenuto che, per le prime due intercettazioni, effettuate il 15 maggio 2018, non sussistesse il requisito della “necessità probatoria” richiesta, per l’autorizzazione successiva all’utilizzo delle intercettazioni e che le restanti 6, effettuate tra il 17 maggio e il 6 agosto 2018, dovessero essere qualificate come “indirette“, perché l’autorità inquirente, potendo prevedere – dopo i primi contatti – le future interlocuzioni tra il senatore Siri e l’imputato principale, avrebbe dovuto chiedere l’autorizzazione preventiva.
Nell’accogliere il ricorso, la Corte costituzionale ha stabilito, innanzi tutto, che il diniego del Senato in merito alla sussistenza della necessità probatoria in relazione alle intercettazioni captate il 15 maggio 2018 “ha menomato le attribuzioni del Giudice ricorrente, in quanto ha preteso di valutare autonomamente le condotte ascritte al parlamentare, anziché operare un vaglio, nei termini richiesti dalla giurisprudenza di questa Corte, sulle motivazioni addotte a sostegno della richiesta di autorizzazione all’utilizzo delle intercettazioni”. La Corte ha tuttavia stabilito che, limitatamente alle intercettazioni successive al 15 maggio, la richiesta di autorizzazione avanzata dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Roma necessiti ora di una nuova valutazione, da parte del Senato della Repubblica, in ordine alla “sussistenza dei presupposti ai quali l’utilizzazione delle intercettazioni effettuate in un diverso procedimento è condizionata, ai sensi dell’art. 6, comma 2, della medesima legge”.