di Michele Tamburrelli*

Il lavoratore part-time deve avere un orario di lavoro predeterminato. Lo ricorda la recente sentenza della Cassazione n. 11333 del 2024, che solleva il problema della costituzionalità della norma prevista dal Jobs Act se non correttamente applicata. Al momento dell’assunzione, quindi, il lavoratore non deve conoscere solo i turni di lavoro, ma anche come questi vengono collocati nel tempo durante la prestazione lavorativa: è contrario alle disposizioni di legge, sostiene la pronuncia, che il datore di lavoro comunichi l’orario di lavoro solo ex post, con cadenza mensile o annuale.

Il lavoro part-time fu introdotto dall’allora contratto del commercio (ora Terziario, distribuzione e servizi) nel 1983, con l’obiettivo di incrementare l’occupazione femminile, favorendo la conciliazione dei tempi di vita e lavoro, e venendo incontro alle esigenze di flessibilità delle aziende. Successivamente, anche il legislatore ha fatto propria questa tipologia di rapporto di lavoro, disciplinandola con il dlgs 863/1984, modificato da una serie di interventi normativi successivi e infine dal dlgs 81/2015 (Jobs Act), che all’art. 5 prevede: “…nel contratto di lavoro a tempo parziale è contenuta puntuale indicazione della durata della prestazione lavorativa e della collocazione temporale dell’orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all’anno. Quando l’organizzazione del lavoro è articolata in turni, l’indicazione di cui al comma precedente può avvenire anche mediante rinvio a turni programmati di lavoro articolati su fasce orarie prestabilite.”

Quello che spesso succede, soprattutto in quei settori dove è necessario organizzare il rapporto di lavoro su turni, è che il datore di lavoro comunichi l’indicazione della durata della prestazione di lavoro non al momento della stipula del contratto, ma durante il rapporto di lavoro. Può succedere, come avviene spesso soprattutto in alcune aziende della grande distribuzione organizzata o del turismo e del terziario, che gli orari di lavoro vengano comunicati ai lavoratori non all’inizio dell’anno o con cadenza semestrale, come l’ordinanza in esame contesta, ma addirittura qualche giorno prima della realizzazione del turno.

Quindi, il lavoratore part-time sa che esistono alcune fasce orarie di lavoro prestabilite anche contrattualmente, ma viene a conoscenza del suo orario di lavoro solo quando il suo diretto responsabile assegna i turni. Queste pratiche potrebbero essere contrarie al dettato costituzionale; lo ricorda la sentenza in esame che, appunto, trattando un caso simile, cita la sentenza della Corte Costituzionale numero 210 del 1992: queste pratiche sono in contrasto con l’art. 36 della Costituzione perché non consentono al lavoratore di ricercare, all’occorrenza, un altro rapporto di lavoro e ambire a una retribuzione dignitosa e, contestualmente, permettersi una pensione adeguata, come stabilito dall’art. 38 della Costituzione.

C’è da dire che il legislatore, disciplinando il rapporto di lavoro part-time, ha introdotto nel tempo anche il concetto di clausole elastiche e flessibili (infine ricondotte alle sole clausole flessibili), cioè la possibilità data alle aziende, dietro modesto compenso, di poter modificare la collocazione dell’orario di lavoro con un breve preavviso. Questo istituto, previsto originariamente per tamponare esigenze straordinarie e limitate nel tempo, seppur denunciabile in alcuni casi previsti dalla legge, è stato gradualmente usato come strumento per assicurarsi la piena disponibilità del personale a coprire le esigenze strutturali dell’organizzazione del lavoro nelle aziende.

Avendo l’occasione di assumere un lavoratore part-time e fargli sottoscrivere clausole flessibili, con la possibilità di variare in aumento e in collocazione l’orario di lavoro durante tutto il rapporto di lavoro, e un lavoratore a tempo pieno il cui orario di lavoro è soggetto allo ius variandi del datore di lavoro ma tendenzialmente non comprimibile, cosa viene più facile fare ad una azienda?

Questa forzatura della normativa contribuisce, a parere mio, alla generazione di una buona fetta di lavori poveri e di part-time involontario, ovvero un lavoro part-time “totalizzante”: persone a completa disposizione delle esigenze aziendali che cercheranno il più possibile di effettuare prestazioni di lavoro supplementari per avere uno stipendio dignitoso.

Il nostro ordinamento possiede già qualche anticorpo a queste pratiche di “forzatura” della normativa. Per esempio, il dlgs 104/2022 (detto anche decreto trasparenza) e le relative circolari interpretative del Ministero del Lavoro e dell’Inail rafforzano il concetto di preventiva conoscenza dell’orario di lavoro.

È fondamentale che le parti sociali e il legislatore collaborino per ridefinire le normative esistenti, permettendo un’organizzazione del lavoro che sia vantaggiosa per entrambi. Le imprese devono avere la possibilità di adattarsi ai cambiamenti del mercato, ma senza sacrificare i diritti fondamentali dei lavoratori. Solo attraverso un dialogo costruttivo e una collaborazione attiva possiamo garantire un futuro lavorativo equo e sostenibile, in cui le esigenze di flessibilità delle aziende si concilino con il rispetto dei diritti dei lavoratori.

*Laureato in diritto del lavoro e relazioni industriali presso la facoltà di Scienze Politiche di Milano, si è occupato della materia fin dai primi esordi nel sindacato. Ha diretto per diversi anni un ente di formazione riconosciuto.

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