Alle Europee del 9 giugno 2024 in Francia ha votato poco più di un avente diritto su due: il 51,5%. Venti giorni dopo, al primo turno delle legislative, la percentuale è balzata al 66,7%. Un’ondata di partecipazione elettorale come non si vedeva da trent’anni.
Perché tante persone, che meno di un mese fa erano rimaste a casa, stavolta hanno deciso di votare? Perché hanno creduto che la Francia fosse davvero dinanzi a una scelta tra diverse visioni della società, dei mali del presente e dei possibili orizzonti di futuro. In ballo ci sono i destini propri e del proprio Paese. Contribuire col proprio voto a un governo di Bardella (Rn) o di Mélenchon (Nfp) – entrambe realistiche – non è lo stesso. La partecipazione si produce laddove in ballo non c’è la mera alternanza tra due facce della stessa medaglia, ma tra alternative vere e credibili.
Il grande sconfitto di questa tornata elettorale, checché ne dicano i suoi fan (anche italiani, vedi l’intervista a Gozi su La Stampa del 1° luglio), è Macron. O, meglio, l’idea che impersonifica. Quando nel 2017 aveva vinto per la prima volta le elezioni presidenziali francesi, si era presentato come l’argine alla crescita dell’ultradestra. Sette anni dopo, la crescita del Rassemblement National di Marine Le Pen, che supera i dieci milioni di voti (33%), è la dimostrazione lampante che il liberismo centrista rappresentato da Macron non funziona come argine. L’estremo centro liberista è, in realtà, il tappeto rosso steso dinanzi all’avanzata dell’ultradestra.
E, in effetti, come puoi essere considerato “argine” se in Parlamento voti insieme all’ultradestra norme contro i migranti? A inseguire l’ultradestra sul proprio terreno non si fa altro che “normalizzarla”, offrendole così maggiore legittimazione e possibilità di vittoria. È quello che è accaduto non solo in Francia, ma in buona parte d’Europa.
In questi ultimi anni e in maniera più marcata durante tutta l’ultima (breve) campagna elettorale, Macron ha provato ad autorappresentare sé, il suo blocco di potere e le sue politiche come l’unico antidoto agli opposti pericoli di Marine Le Pen e di Mélenchon, dando più volte l’idea che il peggiore fosse il secondo e non la prima.
Qui arriviamo alla terza tesi: per ampie frazioni delle classi dominanti un governo dell’ultradestra è largamente preferibile a un esecutivo capeggiato da una sinistra “trasformativa”. Basta andarsi a guardare le dichiarazioni di esponenti del mondo delle imprese fino a oggi macroniano e oggi pronto a saltare sul carro di Bardella-Le Pen. Le proposte economiche e sociali del Nfp fanno paura: aumento del salario minimo, tassazione dei patrimoni e dei redditi della parte più ricca della popolazione, ecc. Il mondo imprenditoriale e quello degli economisti mainstream è pronto ad aggrapparsi all’ultradestra pur di mantenere in piedi l’austerità contro le classi popolari ed evitare misure redistributive che mettano in discussione gli attuali equilibri di potere.
Per distruggere l’ipotesi de La France Insoumise al governo, abbiamo assistito a una continua criminalizzazione della figura di Mélenchon. In patria e all’estero. Sulla stampa si può leggere di lui come di un “provocatore”, un personaggio “divisivo”, un “egocentrico” e, soprattutto, un “antisemita”. È questo il marchio di infamia utilizzato come arma decisiva per ridurre le possibilità di una vittoria elettorale de La France Insoumise, principale forza politica del Nfp. È la stessa arma usata – con successo – contro Corbyn nel Regno Unito.
Anziché cercare l’antisemitismo lì dove davvero si annida, cioè nei mondi dell’ultradestra – come mostra con chiarezza per l’Italia l’inchiesta di Fanpage – lo si usa contro Mélenchon e i suoi. L’accusa di antisemitismo risponde a un duplice scopo: attaccare i consensi de LFI e ribadire che il sostegno al sionismo israeliano è elemento strutturale e indiscutibile dell’Occidente.
Folli sulla Repubblica del 1° luglio scriveva che Le Pen “è riuscita a cancellare le tracce di antisemitismo, un tempo evidenti nella destra francese, scaricandone il peso a sinistra sull’elettorato di Mélenchon”. In realtà non è Le Pen l’artefice di questo slittamento, ma un potere mediatico – con alla testa il gruppo facente capo a Vincent Bolloré – che si è prodigato per descrivere qualunque sostegno al popolo palestinese e qualunque opposizione al sionismo israeliano come espressione di antisemitismo. E per rassicurare sui cambiamenti intervenuti in seno all’ultradestra lepeniana. Vi ricorda qualcosa?
Infine, le prospettive, anche al di là del secondo turno del 7 luglio. Dopo l’ulteriore avanzata di Marine Le Pen e dell’ultradestra francese, c’è chi ritiene che l’unica soluzione sia una sospensione della democrazia. Non formale, certo. Ma sostanziale. Come, ad esempio, sostiene il politologo Moisi che, intervistato da Il Messaggero, afferma di essere ottimista non solo perché nutre fiducia nelle istituzioni statuali francesi, ma anche perché spera nell’azione dei mercati, “che ci dicono che non possiamo comportarci come ci pare”. È il pilota automatico invocato spesso anche a casa nostra e che per chi comanda è il rimedio di fronte a cittadini che “non sanno votare”.
Di fronte a queste posizioni, al contrario, la risposta è più democrazia. Le manifestazioni che sono state organizzate subito dopo l’uscita degli exit poll del 30 giugno, con migliaia di persone in diverse città francesi al grido di “Siamo tutti antifascisti”, sono uno dei fattori positivi da tenere in conto. Perché per sconfiggere l’ultradestra, ma soprattutto per trasformare le nostre società, serve una dialettica virtuosa tra urne e piazze. Scendere in piazza, protestare contro l’avanzata del Rn, denunciare la “Macronie”, evidenziare le misure politiche, economiche, sociali e culturali di cui hanno bisogno le classi popolari, non è volontà di negazione dei risultati elettorali (non siamo di fronte a Capitol Hill), ma la consapevolezza che il consenso prima che contarsi si costruisce. Negli spazi pubblici delle nostre società: le scuole, le piazze, i media. Prima che nelle urne.